Conte fa a pezzi la forma di governo. E Mattarella tace

La Costituzione italiana, diversamente da quella di altri ordinamenti, non contiene una disposizione sullo stato di emergenza ad eccezione della dichiarazione di guerra ex art. 78. Volutamente i costituenti decisero di non disciplinare questa situazione per il pericolo di derive autoritarie. Pertanto, l’unico strumento è il decreto-legge, un atto avente forza di legge del Governo della Repubblica adottato, «sotto la propria responsabilità», in presenza di tre presupposti giustificativi: straordinarietà, urgenza e necessità. La particolarità della natura della fonte richiede, dunque, che le norme in esso contenute siano specifiche, omogenee, ma soprattutto immediatamente applicabili.

La Corte costituzionale, con la storica sentenza n. 22/2012, ha precisato come questi requisiti, pur non essendo espressamente previsti dal Testo fondamentale del 1948, siano inclusi nelle ragioni che legittimano il ricorso alla decretazione legislativa d’urgenza. Che senso ha, infatti, servirsi di «provvedimenti provvisori con forza di legge» (i decreti-leggi, se non sono convertiti in legge entro 60 giorni, decadono con effetto retroattivo), se poi la loro attuazione avviene a distanza (più o meno breve) di tempo rispetto alla data di entrata in vigore? Pertanto, non è convincente, per almeno due ragioni, la tesi secondo la quale i decreti-legge hanno lo scopo di definire un quadro generale contenente le diverse misure di contenimento modulabili, a secondo dell’andamento della curva epidemiologica, con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri pro tempore (i noti DPCM). In primo luogo, perché sarebbero atti formalmente amministrativi, privi peraltro di qualunque controllo preventivo di legittimità, ad incidere direttamente su diritti costituzionalmente tutelati; in secondo luogo, perché, anche ammesso che non tutte le disposizioni del decreto-legge possiedano il requisito della immediata applicabilità, la loro «efficacia differita» può avvenire, come ha precisato il giudice costituzionale, solo per qualche aspetto e non certamente per gran parte di esse (così le sentenze n. 17/2017 e n. 171/2017).

In una forma di governo parlamentare, quale quella delineata dalla Parte II della Costituzione, ove il Parlamento assume un ruolo centrale specialmente nel rapporto con il Governo avendo il compito di accordarne la fiducia, la marginalizzazione delle due Camere, che vengono semplicemente informate dal Presidente del Consiglio dei Ministri o da un Ministro da lui delegato sul contenuto dei DPCM, limitandosi ad esprimere, con apposite risoluzioni, meri atti di indirizzo, non può che suscitare forti perplessità che inducono a ipotizzare una lenta, ma inesorabile modifica «carsica» del rapporto governati/governati in assenza di formali revisioni costituzionali.

A tutto questo si aggiunga il grande assente della partita: il Presidente della Repubblica. Egli ha il compito di emanare i decreti-leggi e di esercitare, in questa occasione, un controllo di «intensità almeno pari» (sentenza n. 406/1989 Corte cost.) a quello che avviene per la promulgazione di una legge. Tuttavia, quale indipendenza può avere dal Parlamento, dalle coalizioni di partiti e dalla «rappresentanza d’interessi» un Presidente che di quel «teatro» è l’espressione o la conseguenza?

Come scriveva acutamente il grande giurista tedesco Carl Schmitt (1888-1985): «è di notevole importanza che tanto l’indipendenza dell’impiegato professionale quanto l’indipendenza del deputato parlamentare ed infine anche la posizione del Capo dello Stato, protetta con speciali privilegi e con una destituzione aggravata, sia strettamente legata con la rappresentazione della totalità dell’unità politica». Un’ occasione, una volta cessata la pandemia, per rivedere seriamente e con coraggio la forma di governo in senso presidenziale al fine di riformare tutti quegli organi «anfibologici» e fintamente «neutri» come la attuale Presidenza della Repubblica.

Prof. Avv. Augusto Sinagra
(Università «La Sapienza» di Roma)

Prof. Daniele Trabucco
(Libera Accademia degli Studi di Bellinzona (Svizzera)/
Centro Studi Superiore INDEF).