Caso Marò, Bonino e Mogherini salgono sul carro del vincitore

Di Fausto Biloslavo – Facile salire sul carro del vincitore, dopo 8 anni di odissea giudiziaria dei due marò, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre. Ex ministri e pure un ambasciatore della Nato in Afghanistan si fanno belli spiegando che sono loro ad avere sbloccato la situazione, ma non è così. Emma Bonino, ministro degli Esteri del governo Letta si è auto assunta la paternità del ricorso all’arbitrato internazionale, che ha portato al riconoscimento della giurisdizione italiana. «Ho sempre pensato che fosse necessario seguire questa strada» ha dichiarato al Corriere della sera.

A parte che il primo a lanciare l’arbitrato a inizio 2013, era stato l’allora ministro degli Esteri Giulio Terzi, poi «tradito» dal premier Mario Monti che rimandò i marò in India. Bonino non ricorda che proprio con la sua conduzione della Farnesina si è continuato ad imboccare la strada suicida imposta dagli indiani del processo a casa loro. Nel novembre 2013 la ministra dichiarava candidamente: «Adesso la procura di Delhi deve chiudere il fascicolo delle indagini, arrivare al capo d’imputazione e poi si apre il processo». A tal punto che il Giornale andava all’assalto chiedendo una svolta, ovvero di sbattere i pugni sul tavolo e fra le varie alternative possibili caldeggiava proprio l’arbitrato internazionale. Bonino aveva indirettamente risposto: «Non ho mai capito bene cosa voglia dire» sbattere i pugni sul tavolo.

Ancora prima, nell’ottobre 2013, in un’infelice precisazione del suo staff, lungo la strada del procedimento in India, sosteneva che «non è accertata la colpevolezza e non è accertata l’innocenza (dei marò, nda). I processi servono a questo».

Giulio Terzi conferma al Giornale che «l’arbitrato è finito nel nulla per due anni con Bonino agli Esteri e all’inizio Mogherini nel governo Renzi. Puntavano a chissà quale soluzione con gli indiani attraverso i servizi segreti». Al tempo fu addirittura presentata come «secret diplomacy», che non portò mai a nulla. Alla fine anche Renzi comprese che l’unica strada era l’arbitrato, finalmente avviato nel 2015.

Un altro ex ministro senza pudore, che salta sul carro del vincitore, è l’ammiraglio Giampaolo Di Paola. «Grande soddisfazione per il parere espresso dal Tribunale dell’Aja, dopo otto anni di attesa, di sofferenza e di sacrificio da parte dei due fucilieri della Marina» dichiara Di Paola, ministro della Difesa del governo Monti. A dargli man forte da Kabul, dove è Alto rappresentante civile per la Nato, l’ambasciatore Stefano Pontecorvo. Secondo il diplomatico il risultato della sentenza indica chiaramente la posizione «che avevamo ottenuto dai tempi del ministro Di Paola ovvero che l’Italia aveva giurisdizione e per la quale ci siamo battuti». Allora Pontecorvo era consigliere diplomatico alla Difesa.

«L’idea dell’arbitrato era stata proposta fin dall’inizio dalla docente della Luiss, Angela Del Vecchio e partita da me all’inizio del 2013 trattenendo i marò in Italia» racconta Terzi. All’inizio Di Paola lo appoggiava, ma poi Monti tradì i marò rimandandoli in India. Terzi si dimise per protesta, ma Di Paola prese subito le distanze difendendo il governo con uno stucchevole discorso in aula. E non mollò la poltrona. Il risultato è che ci sono voluti oltre due anni per arrivare all’arbitrato.

Non solo: Di Paola adesso contesta l’indennizzo alle vittime imposto all’Italia dal tribunale arbitrale. Si è dimenticato che fu proprio lui a caldeggiare nell’aprile 2012 «un atto di donazione, di generosità, ex gratia» di 146mila euro a ciascuna famiglia dei due pescatori indiani uccisi in alto mare.

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