Di Carlo Nicolato – “Aiutarli a casa loro”. Quante volte abbiamo sentito proporre tale soluzione all’annoso problema degli immigrati. Ed effettivamente non serve un genio per capire che teoricamente sarebbe la quadratura del cerchio se non fosse che poi gli eventuali aiuti, se arrivano, si vanno a scontrare con una realtà ben poco malleabile e reattiva.
Esiste ad esempio un programma di rimpatrio volontario organizzato dall’Organizzazione Mondiale per le Migrazione (Oim) in collaborazione con l’Unione Europea che prevede tra le altre cose un aiuto effettivo all’immigrato rimpatriato, ma a quanto pare non funziona, o perlomeno non funziona come dovrebbe. «Il Ritorno Volontario Assistito e Reintegrazione» si legge sulla pagina della stessa organizzazione, «rappresenta un’opportunità per i cittadini di Paesi terzi di fare ritorno in patria attraverso progetti personalizzati, implementati da OIM per ciascun migrante in considerazione dei bisogni individuali e/o familiari».
Tra i benefici che l’associazione garantisce ai “candidati”, oltre alle spese di viaggio e ai vari documenti, vi è «l’erogazione di una indennità di prima sistemazione» e «l’accompagnamento durante il percorso di reinserimento economico e sociale nel Paese di origine (con un sostegno erogato sotto forma di beni e servizi)». Ovvero un aiuto concreto a casa loro, e non solo una pacca sulla spalla e via.
Ebbene il programma finora ha riguardato dal 2017 almeno 81mila immigrati per un investimento totale di 357 milioni di euro. Intervistato da Euronews Kwaku Arhin-Sam, direttore del Friedensau Institute
IL TREND for Evaluation e autore di uno studio sull’Oim, sostiene almeno metà dei progetti di reintegrazione nei Paesi d’origine falliscono. E sottolinea soprattutto che «già dopo pochi giorni si perde traccia della maggior parte dei migranti» che sbarcano dall’aereo. La stessa Oim ammette che appena un terzo dei migranti che inizia il percorso di reintegrazione nei Paesi di origine porta a termine il programma.
In Sudan ad esempio solamente 766 persone su oltre 2.600 hanno ricevuto un qualche tipo di supporto economico. Uno studio di Harvard sui rimpatriati nigeriani dalla Libia stima che il 61,3 per cento degli intervistati non ha un impiego dopo il ritorno a casa; un ulteriore 16,8 per cento ha lavorato solo per un breve periodo di tempo. Al ritorno, la stragrande maggioranza dei rimpatriati, il 98,3 per cento, non ha accesso ad alcuna forma di educazione.
L’Organizzazione precisa che la richiesta di reintegro è volontaria e che «i migranti possano decidere di abbandonare il programma in ogni momento». Senza considerare che il reintegro richiede da parte delle autorità nazionali un «contributo attivo ad ogni livello della società», e quest’ultimo non è sempre disponibile.
L’Oim fa sapere poi che in generale è difficile aiutare qualcuno ad aprire ad esempio piccole imprese in Paesi dove beni e servizi sono carenti e l’inflazione è alle stelle. Insomma un fallimento, o poco ci manca, dimostrato dal fatto che la gran parte di quelli che spariscono dopo essere ritornati in Patria possono essere facilmente ritrovati sulla strada del ritorno in Europa, il loro unico obiettivo.