Di Luciano Moggi – Aspettando il campionato, approfitto per parlare del dottor Luca Palamara, che il presidente della Repubblica Francesco Cossiga ebbe a definire «faccia da tonno». Ho davanti il post su Twitter in cui il magistrato pare rammaricarsi per alcune cose fatte, tra le quali lo sputtanamento del prossimo mediante intercettazioni relative a faccende private e intime non attinenti ai processi. Questo signore ha ammesso nel corso della trasmissione di Massimo Giletti Non è l’Arena che la sua fama cominciò con il processo Gea-Calciopoli. Chi si ricorda come Palamara si scagliava contro la “cupola del calcio” non può che sorridere pensando a come l’uomo si muoveva da presidente dei magistrati, interessandosi anche alla politica nazionale, ambito nel quale non mi sono mai sognato di far nulla. Adesso che legge il suo nome dove e come non vorrebbe, l’uomo pare quasi un pentito. Troppo tardi. Quando uno nasce quadro però, non può morire tondo. Tant’è che il nostro sostiene di non aver niente di cui vergognarsi.
INDAGINE AD ALTA VISIBILITÀ
Eppure io non posso scordare l’astio che percepivo in lui, quella voglia matta di stravolgere la carriera di chi al calcio aveva dedicato una vita, quasi a voler dimostrare che il più forte era lui. Quando mi indagava, Palamara era un pm sconosciuto, che ancora doveva assurgere agli onori della cronaca, base di partenza per la scalata ai vertici della carriera. Gli avvenimenti che lo stanno travolgendo, oltre a confermare che il tempo è galantuomo, mi fanno sospettare che egli nella sua indagine non avesse mancato di considerare che mettere sotto processo il calcio gli avrebbe garantito una straordinaria visibilità. Il processo alla Gea coinvolse non solo me ma anche dei ragazzini, colpevoli soltanto di essere figli di padri celebri, che tutto potevano fare tranne che delinquere, fare violenza privata ed estorcere: perché queste erano le accuse.
ACCUSE RESPINTE
Io fui indagato per la gestione degli arbitri, che nulla c’entrava con la Gea (e infatti l’accusa cadde miseramente durante il processo) ma la mia presenza garantì la spettacolarizzazione del giudizio. Le accuse furono respinte dal tribunale ma Palamara non ne risentì e l’onda di quel processo lo proiettò nell’Olimpo dei magistrati, fino a farlo diventare presidente dell’Anm. Obiettivo centrato. Lo Stato italiano ha speso tanti denari per un processo finito nel nulla, ma la sua fama lo ha fatto diventare il punto di riferimento di tanti giudici, come si può leggere nelle carte del suo deferimento. Malgrado tutto però io, non essendo malpensante, ho sempre avuto fiducia nella giustizia, perché il cattivo comportamento di uno non va messo in conto ai tanti. Voglio dare un consiglio a Palamara. Certe volte l’uomo trova il suo destino sulla strada intrapresa per evitarlo. Contrapporsi a ciò che ci fa fare la vita porta danni collaterali spesso devastanti. È quel che sta accadendo a questo magistrato, per cui lui calza a pennello il detto «chi di spada ferisce di spada perisce». Anche se i tonni non hanno la spada.