75 anni di comunismo, continuazione del fascismo con mezzi più subdoli

di Luigi Amicone

Ieri, 75 anni orsono, il lato partigiani comunisti della Resistenza ammazzava Benito Mussolini, senza neanche un processo. Non sono un “revisionista”. Né, men che meno, ho mai avuto simpatie fascio missine. Però, ho sempre saputo – perché mi sono informato, ho letto e studiato – che il fascismo fu una dittatura non altrettanto dura, feroce, sanguinaria, del totalitarismo comunista in tutte le sue salse internazionali. Come mi insegna anche in questi giorni di quarantena lo stesso scrittore, magistrato e politico Pd Gianrico Carofiglio.

Sto parlando del fascismo italiano. Non del nazismo. Che col comunismo è degno rappresentante dei Demoni del ventesimo secolo. Ma mentre sappiamo che il nazismo non ha più patria, né si incarna più in nessuno Stato del mondo odierno, sappiamo anche che, invece, il totalitarismo comunista è stato tremendo nello scorso secolo e rimane tremendo ancora oggi.

È stato comunismo. Dai bolscevichi di Lenin alle Guardie rosse di Mao. Dai Khmer rossi di Pol Pot ai Vopos della Germania Est. E rimane comunismo. Dalla Cina di Xi Jinping al Venezuela di Nicolás Maduro, sistemi politici tanto stimati dai nostri Di Maio al governo.

Quanto all’Italia, vale la regola (come già accennato in cronache precedenti e adesso qui approfondiamo ancora un po’) del comunismo come continuazione del fascismo, solo con mezzi più efferati e subdoli. Inizio a sospettare che abbiano tenuto in vita l’Anpi, un ente oggi palesemente inutile ma che continua a essere finanziato dallo Stato, solo per impedire che in Italia si facesse chiarezza sulla storia del comunismo. E comunque: è un fatto della nostra storia che i comunisti hanno ammazzato più antifascisti che i fascisti.

Si comincia dagli antifascisti scappati a Mosca e trucidati dai comunisti di Stalin. E si finisce alle malghe di Porzus dove la madre del diciannovenne Guido Pasolini, fratello di Pier Paolo, gridò il suo dolore per il povero figlio massacrato con gli altri sedici partigiani bianchi della brigata Osoppo dai macellai, comunisti “antifascisti”, che agivano in Friuli, al tempo della Resistenza, a nome e per conto del duce e generale rosso, Josip Broz Tito. Si continua con le foibe. Dove i comunisti “antifascisti” jugoslavi torturarono, smembrarono e buttarono ancora vivi gli italiani, non comunisti o comunisti che fossero, colpevoli solo di essere italiani. E si finisce con le stragi delle “Volanti rosse” del dopoguerra, nella bassa emiliana.

Se non fosse, come vedremo, che i comunisti italiani, usciti dalla Resistenza macchiati di sangue fraterno, furono anche i padri di quei figli che insanguinarono l’Italia durante i famosi “anni di piombo”. Gli anni Settanta della “nuova Resistenza” che avrebbe dovuto vendicare la “Resistenza tradita” dai borghesi (leggi: democratici). E compiere quella “rivoluzione” raccontata dai padri, nell’ansia della quale i figli erano stati allevati.

E d’altra parte. Se la guerra civile italiana si concluse all’indomani della Seconda guerra mondiale, non fu perché il leader del Pci Palmiro Togliatti era di animo così gentile e democratico da non aver progettato una sanguinosa rivoluzione. Ma perché prendendo lui gli ordini da Mosca, Togliatti aveva ricevuto la consegna da Stalin di starsene buono a cuccia. Giacché gli equilibri definiti a Yalta affidavano al Partito comunista italiano la mera funzione di cane da guardia degli interessi di Mosca in Europa. E l’obiettivo di penetrare dall’interno delle sue istituzioni lo Stato italiano. Per infine aggiogarlo all’Unione Sovietica. Con le buone maniere e comunque sempre rispettose – anche dopo i moti di piazza del 30 giugno 1960 contro il governo Tambroni, quando a giudizio di Gianni Baget Bozzo il Pci mandò violentemente a dire che nessun governo avrebbe potuto più governare senza il suo consenso – della divisione del mondo in arsenali di bombe atomiche e nelle due sfere di influenza Est-Ovest Urss-Usa.

D’altra parte il “glorioso” Partito comunista italiano di Togliatti-Longo-Berlinguer non ebbe mai dubbi, tranne tardivi (dichiarando la «fine della sua spinta propulsiva» e l’«eurocomunismo» nella versione Berlinguer di primi anni Ottanta), sull’Unione Sovietica come faro di umanesimo, progresso, civiltà.

Il comunismo assieme al nazismo – e nel biennio 1939-1941 addirittura nel patto di sangue Molotov-Ribbentrop – ha riempito l’Europa di lager, sterminio e fosse comuni. Per decine di milioni e decine e ancora decine, fino e oltre i cento milioni di morti. E il Pci italiano non è affatto innocente come vogliono farci credere gli storici faziosi e il giornalismo poveretto.

Il capo del Pci in persona ha condiviso e collaborato alle purghe staliniane a Mosca e all’estero. Il Pci di Togliatti ha celebrato la morte di Giuseppe Stalin, lo sterminatore di popoli, quale «glorioso padre di tutti i popoli». Il Pci di Togliatti e dei suoi successori ha applaudito l’invasione sovietica in Ungheria e ha rappresentato la quinta colonna in Occidente dei nemici della democrazia, dell’Alleanza atlantica e, non dimenticate, fino a quasi alla caduta del Muro, anche dell’unità europea.

Mio suocero, che trascorse due anni di lager negli Urali e si salvò solo grazie ai documenti di un soldato francese morto di stenti in un campo adiacente a quello degli italiani, ci raccontava in famiglia dei blitz del segretario del Pci tra i detenuti. Dove anche la polizia comunista sovietica si intratteneva, un po’ per utilizzare le delazioni di Togliatti, un po’ per utilizzare lo stesso Togliatti per tenere corsi di “rieducazione” ai detenuti italiani. Tra i quali, appunto, mio suocero Jean Valenti. Fondatore e tessera numero 1 dell’associazione italiana sommelier. Nonché fondatore e tessera numero 1 della associazione internazionale sommelier.

Dovette stare schiscio e tenersi da conto per molti anni, dopo essere rientrato in Europa dal lager sovietico. Dovette riparare in Svizzera per evitare le sanguinarie vendette comuniste del Dopoguerra. Eppure mio suocero non fu mai un fascista.

Era partito volontario per combattere in Russia aggregandosi a una brigata internazionale anticomunista di italiani, ungheresi, rumeni, bulgari eccetera, non perché fosse fascista dei fascisti di Farinacci. O repubblichino dei repubblichini del futuro premio Nobel Dario Fo. Ma perché, figlio di contadini bergamaschi emigrati nella banlieue parigina, impiegati con uno stuolo di altre famiglie lombarde nelle fungaie che rifornivano l’esercito francese, si trovò a fare la sua prima santa comunione e santa cresima in una chiesa assediata da manifestanti. Si trovò terrorizzato a dover attraversare con mamma e papà le forche caudine fatte di bandiere rosse. Tra due ali di folla sputazzante e insultante i credenti usciti dalla chiesa. Fu allora che decise in cuor suo che il comunismo era il Male.

Così, falsificata la sua data di nascita, un giorno dei primi anni Quaranta si presentò al consolato dell’Italia ancora (per poco) fascista. E si arruolò per andare a combattere i comunisti in Russia. Aveva 18 anni non ancora compiuti. Avete da dire qualcosa a quel ragazzo coraggioso che aveva visto e capito subito che razza di umanesimo, progresso, civiltà, avrebbero potuto portarci i “rossi”? I comunisti mangiano i bambini? Sì, ragazzo Valenti incrociò testimoni dei fatti, ucraini sopravvissuti allo sterminio comunista staliniano dei contadini kulaki. «Sì, la gente disperata mangiava anche i bambini già morti di fame».

Queste cose, dopo averle lette per lo più dagli storici non italiani, le abbiamo sentite anche dalla viva voce di un italiano, partito per combattere in Urss, caduto in un campo di patate polacco, preso a grandinate dalle katiusce sovietiche, sopravvissuto miracolosamente (Valenti era fermamente persuaso che il merito fosse della Madonna Nera di Czestochowa) benché ferito e con schegge di granata infilate nella spalla, salvato dal linciaggio dei soldati russi dall’intervento di una mastodontica infermiera russa «che puzzava in maniera incredibile di formaggio», che lo prese in braccio e lo buttò in un angolo di una stazione di campagna dove sarebbe stato caricato su un vagone piombato, direzione Arcipelago Gulag.

Altro che i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. «Punto». Caro Aldo Cazzullo, questa volta non polemizzo. Semplicemente, non sono d’accordo. La scuola storica torinese è responsabile – quella sì – di revisionismo nel senso di una versione non equilibrata della storia italiana. Fu vera guerra civile, per dirla con il comunista italiano Aldo Tortorella recentemente intervistato da Walter Veltroni sul Corriere della Sera.

Ripeto. Non buona causa da una parte e cattiva dall’altra. Per dire, il grande storico dell’arte ed ebreo Paul Kristeller, ha fatto in tempo a testimoniare al nostro giornale – nell’intervista che gli fece Silvia Kramar a New York poco prima che morisse – che egli era stato protetto da buoni italiani e in particolare dal «mio amico fascista Gentile», ministro dell’Istruzione. Ma non dai comunisti, «i comunisti che assassinarono il mio amico Gentile».

E fu talmente una tragedia civile quella del fascismo e dell’antifascismo insieme, che – come confessò ancora una volta a Tempi l’ex comunista di Lotta continua Paolo Mieli – la storia dei presunti “silenzi” di Pio XII davanti alla Shoah non è nient’altro che una leggenda nera coniata dai comunisti per vendetta del Papa che aveva scomunicato i comunisti. Tant’è che il dramma teatrale Il Vicario dell’autore tedesco Rolf Hochhuth, rappresentato per la prima volta in Germania nel 1963, nasce proprio negli ambienti della intellighentsia comunista, appunto come Hochhuth, diligente allievo del premio Stalin per la pace, Bertolt Brecht. Tant’è che, due anni dopo la prima berlinese all’epoca in cui Berlino era divisa dal Muro elevato dai comunisti della Ddr, nel 1965 la pièce teatrale calunniosa di papa Pacelli viene allestita a Roma dal regista Gian Maria Volonté, intellettuale organico al Partito comunista italiano.

E chi fu tra l’altro, oltre che un indubbio grande attore e regista, Gian Maria Volonté? Fu un militante, tesserato e consigliere comunale del Pci a Roma nell’anno 1975. Fu l’organizzatore della fuga all’estero di Oreste Scalzone e di altri militanti dell’estrema sinistra inseguiti da provvedimenti della magistratura per reati di terrorismo. E fu colui il quale materialmente, caricandoli sulla propria barca a vela, trasportò al sicuro in Francia Scalzone e compagni.

D’altra parte, fu lo stesso Scalzone, sul finire degli anni Novanta, ancora dall’esilio parigino, che condividendo un pezzo di strada con Tempi, si mise a raccontarci in una rubrica di “memorie” la famigliarità ideologica – e non solo – tra Pci e «i figli cresciuti nel cortile di casa». Fino a incrociare – come lo chiama Scalzone – «citizen Scalfari», fondatore e direttore della Repubblica. Quotidiano che visse ipocritamente sul filo di un manifesto di ripugnante ignavia, sottoscritto dal Umberto Eco e da decine di intellettuali suoi colleghi comunisti (manifesto dal titolo eloquente: “Ne’ con lo Stato, ne’ con le Br”). Quotidiano che visse, fondatore e direttore “citizen Scalfari”, tra il 1977 e il 1978, in stretto connubio con gli emissari delle Br (mai dimenticare l’elogio della «geometrica potenza di fuoco» scritto dal “maestro” dell’Autop al Sud, Franco Piperno, poi latitante in Canada, sulle colonne dell’altro organo scalfariano, il settimanale L’Espresso, in esaltazione dell’azione del commando stragista e assassino di Aldo Moro). E al tempo stesso, sia vivendo sul filo della ignavia dei suoi amici intellettuali, sia nella ruffianeria codina dei suoi cronisti a tu per tu con gli emissari delle Br, “citizen Scalfari” riuscì nel capolavoro di schierare Repubblica sul “fronte della intransigenza” imposta dal Pci (e dal ministro degli interni Dc Francesco Cossiga, che infatti ne uscirà provato fino alla depressione gravissima, per poi passare alla storia quale presidente della Repubblica “picconatore”) nonostante la trattativa proposta dalle Brigate eosse e auspicata perfino da papa Paolo VI, oltre che dai socialisti di Bettino Craxi.

A 75 anni dalla uccisione di Benito Mussolini, la verità è che la storia d’Italia scritta dai vincitori rimane intrisa di menzogna. Menzogna che, come il pesce andato a male, puzza dalla testa. A cominciare dalle circostanze dell’assassinio del Duce e della sua compagna Claretta Petacci, i cui corpi furono fatti spettacolo immondo a piazzale Loreto.

Sarà interessante vedere dal Cielo il film è i libri dei posteri che sputtaneranno la massa di mentitori ancora in minima parte viventi che non soltanto hanno falsificato la storia. Ma hanno insegnato ai propri figli, nelle scuole e nelle università, la menzogna che li ha resi ciechi e violenti di ideologia comunista tramandata fino ad oggi da una certa sinistra e dal Pd non di Carofiglio.

Tutti i cosiddetti mostri sacri della storiografia della resistenza vengono dal comunismo e relativi satelliti (vedi alla voce “azionisti torinesi”). Fatta eccezione quasi soltanto per Renzo De Felice e di Augusto Del Noce. Storici e filosofi che infatti furono massacrati in vita per le loro supposte tesi “revisioniste”. Che tradotto dal comunista significa: “Guai a te se ti permetti di mettere in discussione i dogmi dell’Anpi”. Come capita ai libri di Giampaolo Pansa. E alle persone come Pansa che, letteralmente, devono ancora oggi farsi scortare dai carabinieri per tenere una conferenza o la presentazione di un libro in qualunque scuola e università dello Stato italiano.

E poi dite che l’Italia non riesce a ripartire con tutto il piombo exneopost nelle ali e nella testa? Ma il padre del comunista Gian Maria Volonté era stato fascista. Norberto Bobbio era stato fascista (ed è stato zitto finché poco prima di morire Pietrangelo Buttafuoco lo convinse a vuotare il sacco). Il fondatore di Repubblica è stato fascista. Il grande mito della Resistenza antifascista Giorgio Bocca è stato fascista. Il premio Nobel Dario Fo è stato fascista. Vogliamo sul serio fare un bell’elenco e poi parlarne su Repubblica o dove volete voi? Poiché al 90 per cento gli intellettuali, gli artisti, gli scrittori, gli storici, i professoroni, i Corrieri della Sera… furono fascisti sotto il fascismo. Antifascisti sempre (dopo l’8 settembre). E comunisti italiani nel continuare la pulsione fascista con altri mezzi, più potenti e più subdoli. Da 75 anni a questa parte.

75 anni di comunismo, la continuazione del fascismo con mezzi più subdoli