La storia della partigiana “Fiammetta”

di Vittorio Zedda

Continuo, sul filo dei ricordi,la narrazione di storie vere, da sottrarre all’oblio. Senza partigianerie anche quando si tratta di partigiani. Parlo di vite, piccoli frammenti di storia, che forse mai “faranno storia”. Uomini e donne, grandi, perché comuni e ignorati.

Guerra, liberazione e dopoguerra.(n.2)
LA STORIA DELLA PARTIGIANA “FIAMMETTA”

Sembrerebbe un titolo da “romanzo rosa”. Invece è una storia vera, con le tinte dolorose di un dramma, che la protagonista, citata nel titolo, custodì segretamente nell’anima per quasi tutta la vita, terminata una decina di anni fa. Il tempo della vicenda, che radica nell’incontro e nell’innamoramento di due giovani a Torino, coincide con in un periodo compreso fra l’8 settembre del 1943 e i primi mesi del 1945, a pochi mesi da quel 25 aprile ‘45, che “lui” non vide e che “lei” visse immersa in un intimo dolore.

Cornice degli eventi fu quella bellissima parte d’Italia che sta attorno al lago Maggiore e in particolare alla sua riva piemontese. Tutta l’area pedemontano-lacustre piemontese e lombarda, ai confini con la Svizzera, fu teatro di vicende della Resistenza. Non lontano dai luoghi in cui finì la fuga di Mussolini.

Nel mio primo articolo di questa serie (“Il 25 aprile in un ricordo personale”) raccontai la tragica fine di Dario Tarantino, partigiano dopo l’8 settembre 43, già sottufficiale della Regia Aeronautica nonchè fraterno amico, e commilitone pari grado di mio padre. La mia curiosità, che mi condusse a ricostruire la vicenda di Dario, prese le mosse da una dedica da lui scritta sul retro di un quadro di ceramica, che conservo. Era un dono per mio padre. Accanto alla firma di Dario, si leggeva e si legge tuttora il nome di Alyna, persona a me ignota, e di cui non trovavo notizie. Per questo motivo non la citai, scrivendo di lui. Ora posso farlo.

Quel mio articolo ebbe una gran diffusione on-line. Gli scritti non coperti da copyright sono di libero utilizzo in rete ed il mio scritto rimbalzò da un sito all’altro e venne letto anche all’estero. Ricevetti varie e-mail di plauso, da tanti lettori. Mi spronavano a dare seguito a quel filone storico-narrativo, che io, in tanti anni di attività anche editoriale, avevo solo raramente toccato. Col tempo era però cresciuto in me il desiderio di salvare dall’oblio le piccole-grandi vicende di gente comune, le storie che non fanno storia, i ricordi di un’epoca densa di fatti ed emozioni, in cui radicava la mia infanzia, sorgente da sempre di tante ricorrenti riflessioni e memorie. Testimonianze mie e anche altrui, comunque venute a mia conoscenza.

Fu così che, fra tante e-mail, il 6 marzo 2014 ne ricevetti una da Amburgo, scritta da una signora italiana, Erminia V., che tuttora vive in quella città. Erminia aveva letto il mio articolo e ritenendo probabile che quel Dario di cui narravo fosse lo stesso di cui lei aveva avuto notizia, pur senza averlo mai conosciuto, mi chiedeva con quella e-mail ulteriori dettagli per appurare la questione. Nella mia successiva lettera le citai la “misteriosa” Alyna , e questo chiuse il cerchio e mi fece conoscere la storia.
Erminia rispose: Alyna era sua madre, che da qualche anno non c’era più.
Mi disse che non era mai riuscita a trovare una sola persona, al di fuori di me, che fosse in qualche misura depositaria di ricordi di Dario, anche se per interposta persona, cioè mio padre, che me ne aveva parlato.
Iniziò così a raccontarmi la storia seguendo i ricordi che sua madre le aveva confidato solo negli ultimi anni di vita. Erminia era di Torino e viveva in Germania da tanti anni. Sua madre Alyna, nata in un paesino del Lago Maggiore, era morta all’età di 88 anni.

Prima della guerra Alyna aveva lavorato in un laboratorio di ceramiche artistiche a Torino e lì aveva conosciuto Dario. Si erano fidanzati, ma la guerra s’era “messa di mezzo” e avevano rimandato il matrimonio a guerra finita. Dario, dopo l’8 settembre 43, lasciata la divisa, si era unito ad un gruppo partigiano di impronta cattolica. Di fatto, dall’esito delle mie ricerche , avevo appurato la sua appartenenza come “comandante” nelle Formazioni G.L. (Giustizia e Libertà), in seno alle quali erano state accolti gruppi di “resistenti” di varia provenienza politica , fra i quali uno di “Democratici Cristiani”. Data la scelta fatta da Dario, Alyna non volle essere da meno. E fu partigiana per amore.
Sfollò con i genitori nel paese dove era nata, fra la Val d’Ossola e la riva piemontese del Verbano, zona in cui la resistenza era molto attiva. All’epoca il locale comando delle SS era acquartierato in un hotel di Meina e le prime vittime ebree dell’occupazione nazista, furono proprio alcune famiglie di Meina.

Alyna faceva “la staffetta” portando messaggi da un gruppo all’altro, rischiando la pelle ogni volta, coadiuvata anche dal parroco del suo paese. Il suo nome di copertura era Fiammetta. Quello di Dario era Massimo. Lui si spostava soprattutto tra Torino e Milano. Aveva un ruolo specifico nel favorire l’espatrio verso la Svizzera di prigionieri alleati, fuggiti dai campi di concentramento. Quando poteva, passava dal Lago per incontrare Alyna. Così fu anche a metà gennaio del 1945.

Alyna-Fiammetta lo accompagnò ad Ornavasso, dove Dario prese un treno per Milano e fu quella l’ultima volta che lo vide. Dario fu catturato, torturato e ucciso a Milano dai fascisti il 27 gennaio 1945. Ora, da ulteriori ricerche, presumo di sapere perché Dario fu oggetto di tanta abominevole ferocia. Lo dirò poi.

La morte di Dario fu per Alyna un trauma profondo che non la lasciò per tutta la vita. Subito dopo esser venuta a sapere della sua morte, Alyna ebbe un incidente con la bicicletta sulla strada che costeggia il lago,riportandone ferite molto gravi. Solo all’età di quasi 80 anni raccontò alla figlia che era stata lei a provocare l’incidente. Alyna con la bicicletta avevo preso velocità in discesa ignorando volutamente una curva. Tirò dritto senza frenare, con un volo nel vuoto. Sopravvisse, quasi per miracolo.

Così il racconto di Erminia: “La vita e la morte di Dario,(morto assai prima ch’io nascessi) mi hanno accompagnata da quando scoprii in un cassetto, a casa dei miei genitori, la sua foto incorniciata con la dedica a mia mamma. E come tutti i giovani mi incuriosì molto pensare che mia madre fosse stata fidanzata con un altro uomo. Prima di mio padre.

L’esistenza di questo fidanzato fu sempre una specie di tabù in famiglia. Mia madre aveva tenuto una sua foto riposta, disse, perché non ne avrebbe sopportato la vista. Non superò mai il trauma di quella morte, così violenta. Adesso quella foto ce l’ho io.
Quello che più fece soffrire mia mamma fu il fatto di non aver potuto prendere commiato da lui. Non averlo visto da morto fece sì che la ferita rimanesse aperta. Mi raccontava che l’avevano sconsigliata, dicendole che Dario era “irriconoscibile”. Lei invece era sicura che l’avrebbe riconosciuto, perché l’ultima volta che l’aveva visto gli aveva regalato un maglione verde, che aveva fatto ai ferri… Mia madre pensava a lui tante volte, senz’altro molte più volte di quelle che ammetteva. Sono convinta che soffrisse per non aver potuto “concludere” o elaborare, il lutto in un modo che almeno la “ferita” si cicatrizzasse.
Ed è quello che io vorrei fare per lei, cercare di arrivare fino in fondo, di vedere la targa (col nome di Dario) che c’è in una via a Milano, di sapere cosa le avesse raccontato suo padre e, se possibile, vedere la foto di Dario e quella della ceramica che gli regalò. E’ quasi certamente una madonna del laboratorio della “Essevì” di Torino, là dove Dario e mia madre si conobbero tanti anni fa, e dove si innamorarono.
Sa, signor Zedda, io mi sono sempre sentita di dover essere riconoscente a Dario per la sua morte, ed è una brutta sensazione. Devo la mia nascita ad una morte orribile di un giovane uomo di 28 anni… se non fosse stato così io adesso non sarei qui a scriverle questa mail…. Sovente mi viene in mente un detto: “Una persona non è mai veramente morta fino a quando vive nei ricordi degli altri”. Mi fa piacere pensarla così.
Le sarei infinitamente grata se lei potesse contribuire a finire il mio “puzzle” personale di Dario Tarantino. La prossima estate, se verrò al Lago Maggiore, voglio andare a Milano a vedere la targa. Al cimitero di Torino c’è un orribile cubo di granito con i nomi dei morti della resistenza, neanche un piccolo spazio per metterci un fiore. Solo il suo nome e basta.
…La saluto cordialmente, ringraziandola per la sua pazienza. Un saluto, anche all’Italia! Erminia V. “

Dopo quella lettera pensai, non so quante volte, di scrivere questa storia. Ogni volta però mi frenava il dubbio di ledere l’altrui “privacy”. Ne provavo imbarazzo, anche per la delicatezza della vicenda. Speravo di poterne parlare di persona con l’interessata. Passarono gli anni senza che si realizzassero le condizioni per un viaggio di Erminia V. a Milano. Fu l’epidemia del Covid-19 che m’indusse a muovermi. Memore della promessa di dare ad Erminia copia di certe foto, dissi a me stesso che data la mia età e la pestilenza in corso, era bene che mi sbrigassi a riprendere i contatti. Non avrei voluto mancare di parola. A distanza di sei anni le scrissi nuovamente, esplicitando anche i miei dubbi sulla “privacy”. La signora Erminia mi rispose il 14 aprile 2020, e con acume femminile risolse ogni dubbio, esplicito o implicito. E mi diede “carta bianca”: è per questo che solo ora riprendo le fila di quella storia e la concludo. Per farlo, riporto uno stralcio di questa sua recente lettera, che ribadisce alcuni punti densamente emotivi già contenuti nella precedente e-mail. Riproponendo un nodo insolubile, nel cuore.

Scrive Erminia : “Mi raccontò ( Alyna) che Dario era stato torturato e che ( come le avevano riferito) il suo viso era irriconoscibile. Solo il maglione che ancora indossava era lo stesso che lei gli aveva fatto per un suo compleanno. Ormai ultraottantenne, faticava a parlare di lui: vedevo che soffriva e non facevo domande.
La morte di Dario mi segnò in modo incancellabile : avvertii che io non sarei stata in vita se lui non fosse morto. E la psicologia mi dice che per molto tempo ho provato un senso di colpa nei suoi confronti. Nei confronti di uno sconosciuto. Vorrei vedere le foto di cui parla. Per lasciarlo “vivere” ancora un po’… vicino ai ricordi, belli e affettuosi, che ho di mia madre.
Stia bene. I miei più cordiali auguri per il futuro! E grazie per essersi ricordato di me. Un caro saluto da Amburgo. Erminia V.”

Fin qui la storia della partigiana Fiammetta, attraverso i ricordi della figlia. Per concludere, cito una fonte di notizie su Tarantino, trovata in internet. In un lungo, dettagliato e interessante “Rapporto finale sull’attività svolta dal CNL Alta Italia in favore di prigionieri alleati”, a cura di Giuseppe Bacciagalupi, Dario viene citato a più riprese. Collegando fra loro queste citazioni, ho avuto conferma del ruolo di alta responsabilità che il CNL aveva affidato al “comandante Massimo”. Ne deduco un’ipotesi sui motivi per cui a Dario venne inflitto un calvario di torture e mutilazioni prima d’essere ucciso. Cattura come la sua erano generalmente finivano con un plotone d’esecuzione o con una raffica di mitra. Leggo però, nel rapporto citato, che gli alleati, tramite un loro agente, alla fine del 1944 avevano fatto recapitare alla Resistenza italiana, per le spese connesse alle fughe in Svizzera dei prigionieri, un finanziamento, in valuta aurea. E riporto: “Tale somma andò quasi interamente perduta con l’arresto e la fucilazione (sic) del capo del Servizio in quel periodo, Tarantino Dario.” Nel contempo, si riferisce in un altro parte del testo, andò perduta un’importante documentazione sulle attività svolte dal Servizio citato. Quindi è probabile che Dario fosse stato trovato in possesso di documenti e valuta preziosa. La ferocia di cui fu vittima, oltre che per motivazioni politiche e militari, fu scatenata proprio da quell’oro. Ma per ora è solo un mio sospetto. Per questa sua fine, Dario fu definito un martire.

Tornando ad Alyna-Fiammetta , penso all’amore invincibile che solo una donna sa esprimere. Le sue scelte di vita e quell’ inespugnabile dolore per il suo eroe perduto, custodito così a lungo nell’animo, fanno comunque anche di lei ad ogni effetto una martire, da ricordare.

Vittorio Zedda