di Antonio Amorosi – – Il dato assoluto più alto di morti nelle Rsa è in Emilia Romagna col 57,7%, davanti alla Lombardia col 53,4%. Ma il tasso peggiore di mortalità per 100 residenti nelle strutture Rsa ce l’ha la Lombardia con 6,7%, seconda l’Emilia Romagna con il 4%. Sempre se in questo macabro conteggio non vogliamo calcolare la provincia autonoma di Trento che per deceduti assoluti è al 78% dei morti con un tasso di mortalità su 100 residenti del 6.9%. Il dato è stato pubblicato in un report dall’Istituto superiore di sanità il 14 aprile scorso. Il conteggio è riferito ad un arco di tempo che va dal 1°febbraio al 14 aprile 2020.
Nelle Rsa dell’Emilia Romagna il 57,7% dei decessi é stato causato dal Covid, in quelle della Lombardia il 53,4%.
La ricerca, molto articolata e complessa, è l’unica disponibile con questo spettro di intervento. Ha diverse variabile mobili ma il dato non è stabile. La ricerca riguarda solo un terzo delle Rsa censite nel nostro Paese.
“Nel totale dei 6773 soggetti deceduti, 364 erano risultati positivi al tampone e 2360 avevano presentato sintomi simil-influenzali. In sintesi, il 40,2% del totale dei decessi (2724/6773) ha interessato residenti con riscontro di infezione da SARS-CoV-2 o con manifestazioni simil-influenzali”, scrive il report.
La maggior parte dei 1082 questionari compilati per lo studio provengono da Lombardia, Toscana, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna. Il tasso di risposta, quindi il campione sondato, è stato del 33 %, con un’ampia variabilità regionale dallo 0% (Valle D’Aosta e Basilicata) a oltre il 50% per il Molise, Sicilia e Puglia. “Si rileva che questa variabilità è dovuta sia dal limitato tempo trascorso dall’invio dei questionari (circa 1/3 delle strutture sono state contattate nell’ultima settimana) che dal numero assoluto di strutture presenti nelle regioni”, scrive l’ISS. Nei primi posti per numero di strutture esistenti e conteggiate troviamo la Lombardia con 678 Rsa, poi il Piemonte con 608, il Veneto con 520 e l’Emilia Romagna con 348.
Prima provincia in Italia per tasso di mortalità nelle residenze per anziani a causa del Coronavirus è Bergamo con il 18.2%, seconda Reggio Emilia con il 14.9%, anche se il tasso di sintomi conta i picchi più alti proprio a Reggio Emilia (97.4%).
L’altro dato importante riguarda la diffusione del contagio tra il personale delle strutture.
Su 1052 che hanno risposto a questa domanda 193 (18,4%) hanno dichiarato una positività per SARS-CoV-2. Le regioni che presentano una frequenza più alta di strutture con personale riscontrato positivo sono la provincia autonoma di Trento e Bolzano (entrambe 50%), seguite dalla Lombardia (36,0%), Emilia Romagna (17,9%), Marche (16,7%), Veneto (16,6%), Piemonte (12,7%), Friuli Venezia Giulia (12,5%), Toscana (11,3%), e valori inferiori al 10% o uguali a zero per le altre regioni. Questa variabile risente delle politiche adottate da ciascuna Regione, e a volte da ciascuna ASL o distretto sanitario, sull’indicazione ad eseguire i tamponi. A cui va aggiunto che il numero di Rsa è davvero limitato al Sud, dove gli anziani vivono in famiglia o soli, modalità che hanno limitano sicuramente il contagio.
L’elevata diffusione del Coronavirus nelle case di riposo è ormai un’evidenza non solo italiana. Ma in Italia la diffusione e la concentrazione in questi luoghi più fragili mostra un’impreparazione generale del Paese alla difesa da un attacco pandemico.
L’assenza di un piano generale e di una visione di insieme hanno creato il contesto perfetto per l’attacco. Se escludiamo casi singoli, di chi ha chiuso immediatamente la propria struttura ad ogni contatto esterno, dopo la visione in tv delle immagini di Wuan o ai primi contagi in Italia, vi è stata una risposta a macchia di leopardo regione per regione. Ma il tempismo e il buon senso non sono stati sempre la regola. In molti casi lo è stato il caos, l’impreparazione e l’assenza di mezzi. Poi la virulenza del contagio ha fatto il resto.
Il sindaco di Gallarate, Andrea Cassani, che ha raccontato di recente di non ha aver avuto morti nelle Rsa cittadine, ha anche spiegato che ha convocato in Comune le direttrici delle 3 RSA cittadine (di cui una comunale) già il 23 febbraio, dopo la notizia del primo decesso in Italia del 21 febbraio, introducendo “da subito regole comportamentali e legate alle distanze sociali, ai dispositivi di protezione individuale e alle visite, ben 10 giorni prima che intervenisse il Governo con il DPCM”.
Cassani si è anche chiesto: “Dov’erano certi miei colleghi il 23 febbraio? A fare aperitivi a Milano? A cena in qualche ristorante di Bergamo? A farsi il weekend sulle piste da sci? Dov’erano i sindaci-medici che adesso spingono per far eseguire test non certificati ai propri cittadini, magari eseguiti dagli stessi centri medici per cui lavorano?”. Le domande del sindaco non vanno eluse con la confusione e il chiacchiericcio generale, al di là dei comportamenti dolosi che vi possono essere stati, di singoli o dei vertici di strutture.