Coronavirus, lettera aperta dei medici: “Test non ci sono, bisogna dire la verità”

“Ora dire che si devono fare tamponi a tutti è certamente di facile comprensione e raccoglie ovvi consensi. Ma forse si dovrebbe raccontare la verità, e cioè che i test per tutti non ci sono (e dubitiamo ci saranno mai), né risorse organizzative ed economiche per farli. Pertanto dovranno essere considerate strategie ‘progressive’, mirate a campioni della popolazione”. Questo si legge in una lettera aperta indirizzata agli italiani e firmata da una cinquantina di medici di centri in tutta Italia in prima linea nella lotta al Covid-19, che contiene una riflessione ad ampio raggio su come il Paese si sta approcciando all’emergenza coronavirus, mentre continua a salire il bilancio dei camici bianchi morti per il coronavirus in Italia (l’ultimo, tragico aggiornamento della Fnomceo parla di 127 vittime, mentre sono 9 i farmacisti deceduti).

Tra i firmatari della lettera figurano diversi nomi di Bergamo, una delle province più colpite dai contagi, ma non solo. Ci sono medici operativi a Catanzaro, Padova, Rimini, Pavia, Napoli, in tutta Italia e persino nelle svizzere Locarno e Ginevra. I camici bianchi mettono in guardia dal “bisogno ‘sociale’ di additare un responsabile per ogni evento” e dal rischio di “trarre conclusioni a ‘partita’ ancora in corso”, ricordando anche l’incredulità e la diffidenza con cui “due mesi fa, non decadi fa” si guardava a quello che stava succedendo in Cina, nella convinzione che non sarebbe stato “un nostro problema”.
Coronavirus, la questione dei numeri dell’epidemia e dei tamponi

Tra i vari temi toccati anche quello dei numeri dell’epidemia e dei tamponi. “Il fenomeno ‘numero di positivi’ dipende da fattori interconnessi e non sempre identificabili – si legge nella lettera – Il primo è il numero di test che sono stati effettuati. Ora, nei piccoli numeri è certamente un fattore concreto e reale. Ma su larga scala, troppo spesso ciò che è giusto fare non è semplicemente sostenibile: le risorse tecniche e di materiali non sono state e non saranno mai sufficienti ad eseguire test a tutta la popolazione. Nell’immediato, mentre è stata in corso la massima emergenza, non sono stati disponibili neanche test sufficienti per ‘selezionati’ campioni di popolazione”.

Chiariscono i camici bianchi: “Ricordandoci che in una pandemia ogni negativo al test deve esservi sottoposto periodicamente e ripetutamente: non c’è un modello di automazione che consenta tali milioni di test e non c’è la produzione di reagenti per sostenerli“. In questo contesto, la tecnologia “ci sta solo recentemente mettendo a disposizione dei test rapidi, più adeguati: ma ancora una volta, la effettiva disponibilità capillare e la sostenibilità economica devono essere attentamente considerate”.

In questi giorni ci si interroga per esempio sui numeri della pandemia e si fanno raffronti, ma per i medici firmatari della lettera il cuore del problema è che “i luoghi dove scoppia un focolaio presentano differenze in termini di densità di popolazione, di livello di industrializzazione, di relazioni commerciali internazionali, di presenza di interconnessioni ferroviarie, autostradali o aeroportuali, di fattori orografici che possono facilitare o rendere complesso l’isolamento fattivo ed infine di differenze culturali (il fatto di stringersi la mano, la promiscuità fisica come socialmente accettata) e sociodemografiche (numero di componenti famigliari, ossia persone che vivono sotto lo stesso tetto)”.

Attenzione alle false illusioni

I medici mettono poi in guardia gli italiani dal rischio di false speranze. ”Se qualcuno ritiene ancora che la soluzione di una pandemia di questa portata, possa poggiare principalmente sugli aspetti ‘tecnici, sanitari o farmacologici’, vive certamente in una falsa illusione”, mentre “se viceversa, si accetta pienamente il principio che la ‘vera’ soluzione è socio-epidemiologica, cioè basata sull’isolamento personale (e non ‘familiare’), allora la strada appare percorribile”. Questa seconda possibilità però “implica il credere fermamente nel principio che la comunicazione sia pienamente parte del processo di gestione e cura di questa pandemia, e agire fermamente in tale direzione”.

Nella lettera i medici fanno anche chiarezza su alcuni aspetti, come ad esempio il tasso di letalità del virus Sars-CoV-2. Per i camici bianchi “la definizione corretta è: la proporzione, in percentuale, di decessi per una specifica malattia sul totale dei soggetti ammalati in un determinato arco temporale”.

“Questo insistente riferimento a numeri che, per definizione, non possono essere calcolabili né tantomeno comparabili tra paesi o zone con politiche di test o di report dei dati clamorosamente differenti, rende ragione di numerose discussioni su una ‘presunta’ maggior letalità in Italia: in determinare aree di fatto si sono eseguiti dei test solo nei pazienti che accedevano alle strutture ospedaliere; come si può immaginare sia possibile una corretta valutazione della percentuale di letalità?”

Altro aspetto che è stato “oggetto di ardite comparazioni” per i medici è “l’eccessivo tasso di ricoveri, che avrebbe finito per peggiorare cose”. Nella lettera spiegano che sì, “la gestione domiciliare, ove possibile, garantirebbe migliori risultati nel contenimento” e il “concetto di sanità decentrata rispetto a ospedalizzazione centralizzata è ancora una volta condivisibile nei suoi presupposti teorici”, ma poi “c’è la realtà: nelle zone ad alta endemia, circa il 20% dei pazienti che si sono presentati in PS non sono sopravvissuti, ben oltre il 50% ha necessitato di supporto ventilatorio anche aggressivo e ‘solo’ il 20-30% era in realtà dimissibile, seppur con una polmonite. Davvero qualcuno ritiene ancora che, con questi numeri, queste persone si sarebbero potute tenere ‘a casa’?”.

I medici intervengono anche sulla questione dei “guariti”. Secondo i camici bianchi infatti “senza un denominatore adeguato, si può solo stimare la percentuale di guariti tra coloro che sono stati ricoverati (ovviamente stimando inadeguatamente la quota di chi non ce l’ha fatta ad arrivare in ospedale)”.

“Apprendere è un processo lento e metodico, concetto che si scontra con la rapidità di questa pandemia e con la ricerca di rimedi. Apprendere da eventi inimmaginabili e portentosi come questo, non può non essere parte di un processo complesso e faticoso: richiede, osservazione, raccolta, misurazione, descrizione, analisi e valutazione. E dopo tale faticoso processo, in genere, si ricomincia daccapo. Perché alla fine, solo i numeri (‘corretti’), saranno ciò che ci aiuterà davvero ad imparare”

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