Di fronte alla morte basta liquidare l’argomento con la benedizione della salma e della tomba, sospendendo i funerali?
La perdita di una persona cara è un’esperienza drammatica, che necessita di spazi adeguati per vivere il lutto nella sua dimensione personale e sociale, oltre che religiosa. Il funerale permette, nella nostra cultura, di vivere il cordoglio e iniziare una corretta elaborazione.
La sospensione delle cerimonie funebri è stata stabilita per la zona arancione dal decreto del presidente del Consiglio dei ministri dell’8 marzo 2020, ed è stata in seguito estesa a livello nazionale nel decreto del 9 marzo. Nel pomeriggio di lunedì 9 marzo ho lanciato una petizione rivolta all’attenzione del presidente del Consiglio dei ministri Giuseppe Conte e alla Conferenza Episcopale Italiana per chiedere di consentire la celebrazione dei funerali in forma strettamente privata (http://chng.it/RrWrJP95).
La mia petizione non vuole essere una contestazione fine a sé stessa perché è giusto tutelare la salute pubblica, ma vuole essere uno spunto di riflessione sulla scala delle priorità e sui valori più profondi che mi interpellano in questa situazione così complessa.
Non celebrare affatto i funerali, neanche in forma privata alla presenza dei parenti stretti, introduce a mio parere un elemento di disumanità e crudeltà intollerabile, lede i diritti umani.
Siamo tutti chiamati a fare la nostra parte rispettando le leggi, ma la situazione non deve farci perdere di umanità. In che misura fare un funerale, con tutte le limitazioni, è potenzialmente maggiore fonte di contagio rispetto ad andare a fare la spesa, con tutte le limitazioni?
Ma perché dovrebbe essere più pericoloso avere un rito funebre per i familiari stretti di una persona che oggi viene a mancare, per il coronavirus o non, piuttosto che andare a lavorare, per coloro che dovranno continuare a lavorare ad esempio per la produzione di generi alimentari o macchinari medici? Chi dice che c’è meno rischio per chi consegna a domicilio che per chi va al funerale di un parente estinto?
Non c’è dubbio sul fatto che determinati lavori non si possono fermare per consentire la sopravvivenza della popolazione, ma come si stabilisce cosa è necessario per sopravvivere e cosa no? Quanto può essere devastante psicologicamente e che ripercussioni può avere l’impossibilità di vivere un rito per il caro estinto se lo si desidera fortemente? Questa decisione tiene conto del dolore e dello smarrimento di chi perde un caro?
Le chiese italiane sono tendenzialmente strutture molto ampie, danno molte più possibilità di distanziare le persone di molti luoghi di lavoro.
Non è forse dovere dello Stato riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 della Costituzione Italiana)? E chi stabilisce, e secondo quali criteri, che questa non ne sia una violazione?
Nelle situazioni di crisi gli spazi per coltivare l’umanità delle persone, per riconoscerne e accoglierne la fragilità sono i primi a perdersi. Il mio appello è: restiamo umani.
Devo poter avere un conforto, se ci credo.
Francesca Benedetta Penna