Coronavirus, essere italiani è diventata una barzelletta

di Aldo Grandi

Siamo, a tutti gli effetti, come i cinesi. Anzi, per certi versi anche peggio. Da tutto il mondo ci guardano come se fossimo degli appestati, da tenere lontano e, possibilmente, da evitare. Ne sanno qualcosa i 40 turisti milanesi e veneti che, arrivati alle Mauritius, Africa gente, non sono nemmeno stati fatti scendere e rispediti senza tanti complimenti al mittente. Milanesi terun verrebbe da dire: loro, abituati a considerarsi i padroni delle ferriere, quelli che hanno colonizzato l’Italia, quelli con la spocchia con la S maiuscola e la erre moscia, eccoli lì, peggio dei meridionali negli anni del boom economico. Ci sono rimasti male, ma tant’è. Il Coronavirus non fa sconti a nessuno.

Oggi essere italiani è diventata una barzelletta. In Europa i contagi si contano sulle dita di qualche mano mentre, da noi, crescono a vista d’occhio e, soprattutto, siamo il terzo Paese al mondo per numero di ammalati. Come è stato possibile? Non lo sappiamo, non siamo virologi né abbiamo le competenze necessarie, ma, di sicuro, di una cosa siamo assolutamente certi: questa vicenda provocherà dei danni spaventosi a livello economico che nessuno, stupidamente, si chiede come affrontare. Quando, si spera al più presto, l’emergenza finirà – ma cosa si intende per emergenza finita? – si raccoglieranno i cocci e ci sarà da piangere.

Le merci, così come il denaro, così come i mercati borse comprese, non hanno sentimenti né si lasciano commuovere. Guardano al profitto, all’efficienza, alle possibilità di guadagno, alla velocità degli scambi anzi, se proprio vogliamo dirla tutta sono impietosi, bastardi dentro verrebbe da dire, senza un minimo di comprensione o di pietà. Chi finisce nel tritacarne animato dalle speculazioni e non solo, non ha speranza ed è quello che sta succedendo, purtroppo, proprio a noi. Questa volta siamo veramente nella merda e, lasciatecelo dire, ancora di più lo sono tutti coloro che non hanno uno stipendio fisso garantito dallo stato e dipendono, appunto, dalla libera circolazione delle merci e dei lavoratori. Bloccarli significa uccidere l’economia e devastare un sistema intero.

Corrono tutti, in Lombardia e Veneto, ma anche qui da noi, a Lucca, poveri untorelli, a svuotare gli scaffali dei supermercati, quasi fare provviste all’infinito servisse a scongiurare il cataclisma che ci sta piovendo addosso, non tanto per colpa del coronaviurs, quanto per colpa di chi, ancor prima di essersi spaccato la testa, se l’è già fasciata.

Noi non amiamo le sardine, né tutti coloro che si muovono in branco. Non ci piacciono nemmeno le pecore, meglio le capre che, a dispetto di Sgarbi, sono animali parecchio più intelligenti e autonomi. Mentre le chat di mamme e non solo prendono fuoco per la paura di questo virus che ha contagiato poco più di 200 persone su una popolazione di 56 milioni di abitanti, mentre ieri sera c’è stata, alle nostre latitudini, la corsa al carrello della spesa – che tristezza gente, l’ennesima dimostrazione che la grande distribuzione, sia pure utile per certi versi, in realtà è il classico esempio dell’atomizzazione dell’individuo – noi abbiamo pensato bene di andarcene a fare una passeggiata per le strade di una Pietrasanta splendida e pressoché deserta. Abbiamo cenato dall’amico Marcucci alla sua enoteca di via Garibaldi e questa mattina, incuranti di ciò che era accaduto la sera prima, siamo entrati al supermercato dove abbiamo trovato tutto quello che ci serviva per mangiare oggi e, se avessimo voluto, anche nei prossimi giorni. Casse vuote, senza file, spesa facile e veloce.

Ricordiamo, noi che apparteniamo a una generazione figlia di chi, il coronavirus l’ha vissuto davvero, ma sotto i bombardamenti della guerra fascista, alle prese con i tedeschi padroni in casa nostra e con gli alleati che, per liberarci, ci hanno distrutto tutto quello che c’era da distruggere, con fame e sete a farla da padroni, con i virus sì, ma quelli veri, causati dalla necessità di prostituirsi per poter mettere qualcosa sotto i denti, senza supermercati dove correre a rifocillarsi e a riempire il frigorifero, una nevicata da record rimasta negli annali della storia ancora oggi nella Roma del 1985.

Vivevamo, noi, sulla via Cassia, località La Storta, a una ventina di chilometri o poco meno dal centro. La città restò paralizzata per alcuni giorni con i disagi che tutti possono facilmente immaginare. Inviti, ovviamente, a restare in casa e a non avventurarsi per le strade con il rischio di restare bloccati. Se non erriamo, dopo un giorno di riflessione e di relax, noi che, all’epoca, giovani virgulti impegnati agonisticamente nell’atletica leggera e, quotidianamente, al campo delle Terme di Caracalla, uno sputo dal Colosseo e dal Circo Massimo, prendemmo la decisione di osare e, con la nostra Fiat 850 Spider, decidemmo di fare quello che avevamo sempre fatto incuranti di tutto il resto. Follia? Può darsi, ma fu una meravigliosa follia girare per le strade di Roma deserte e fare tutte quelle cose che, altrimenti, non si sarebbero potute fare senza spendere ore e ore perduti nel caos del traffico.

Perdonateci la disgressione soprattutto perché questa emergenza è molto, ma molto lontana dall’essere paragonata al coronavirus e a questa emergenza sanitaria, ma volevamo solo utilizzare un paradosso per far capire che farsi prendere dall’ansia, dalla paura, dal panico è terribile e dannoso.

Purtroppo ci sembra, davvero, che in troppi siano andati completamente fuori di testa e se così è e sarà, noi faremo esattamente ciò che facemmo in quelle giornate del 1985. Vivremo normalmente convinti che solo la normalità e il mantenimento delle proprie abitudini possono rappresentare un forte antidoto, ancor più che l’amuchina, contro il pericolo peggiore in questi casi: il rischio del caos e del disordine.

I nostri politicanti che, è bene sottolinearlo, guadagneranno comunque, al mese, i loro 12 mila euro al mese o giù di lì, non si rendono conto che questo sistema ha bisogno di essere privo di vincoli per funzionare altrimenti è la fine. Qualcuno si azzarda a ipotizzare che lo stato stanzierà dei fondi per le aziende in difficoltà: se il risultato è come quello delle popolazioni colpite dal terremoto, c’è da mettersi le mani nei capelli e anche un po’ più giù.

Siamo diventati, agli occhi del mondo, un popolo di appestati e l’Italia il Paese dove si rischia di contrarre il Corionavirus. Secondo voi, quanti turisti accetteranno di venire nelle prossime settimane a trascorrere le vacanze da noi? E avete idea di quanti hanno già disdetto le prenotazioni o scelto di non venire nel Belpaese? Avete una sola idea di ciò che questo comporta a livello economico? Recessione? Stagnazione? Stagflazione? Infiliamoceli, pure, tutti che non se ne salverà nemmeno uno.

Quando le imprese – e il più colpito sarà il settore più importante per il nostro Paese, ossia il turismo – non incasseranno e si renderanno conto di non poter fare più fronte alle spese, licenzieranno o falliranno. Le banche, esposte fino all’osso, non sapranno cosa farsene dei beni messi a garanzia dei soldi concessi a privati e ad aziende. I consumi si ridurranno al minimo e limitati alla sussistenza. I mercati crolleranno e se il nostro Governo di mentecatti non farà in modo di riportare le cose alla normalità, sarà la catastrofe. Annunciata.

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