di Souad Sbai – – www.lanuovabq.it
Boris Johnson è uno che non molla. Lo ha dimostrato con la Brexit e c’è da scommettere che riuscirà anche nel suo intento d’introdurre una legislazione speciale volta a bloccare il rilascio automatico di detenuti condannati per terrorismo prima che scontino per intero la condanna. Il provvedimento è attualmente all’esame del Parlamento inglese e l’obiettivo del Premier è quello di ottenerne l’approvazione entro la fine del mese di febbraio, per impedire che altri terroristi vengano rilasciati secondo la regolamentazione vigente e possano quindi compiere attentati. I soggetti interessati sono una cinquantina, mentre quelli che negli ultimi 7 anni hanno beneficiato di sconti di pena sono circa 160.
Johnson aveva proposto la riforma già in seguito ai tre morti per accoltellamento di London Bridge, avvenuti durante il Black Friday del 29 novembre per mano di Usman Khan, militante di Al Qaeda che era riuscito a ottenere la libertà vigilata dopo aver ingannato tutti, facendosi passare come un caso di successo nell’ambito di un programma di de-radicalizzazione e riabilitazione.
La spinta definitiva all’attuazione del Terrorist Offenders (Restriction of Early Release) Bill l’ha – drammaticamente – fornita l’attentato di Streatham il 2 febbraio: armato di coltello e in libertà “vigilata”, Sudesh Amman, condannato per propaganda jihadista pro-ISIS, non è riuscito a provocare “più” di due feriti prima di essere abbattuto dalla polizia. Tuttavia, in un paese già ripetutamente colpito sia dal terrorismo dinamitardo e stragista di Al Qaeda, che dalle iniziative individuali di radicalizzati all’estremismo dell’ISIS, l’accaduto è coinciso con il momento della svolta definitiva.
Niente più temporeggiamenti, ha deciso Johnson, e confronto aperto senza timore con i soloni della sinistra. I laburisti di Corbyn infatti non si sono smentiti neppure in questa circostanza, avversando il provvedimento poiché sarebbe lesivo dei diritti umani dei terroristi, che per una certa sinistra valgono più del diritto alla sicurezza e alla vita dei cittadini, corrispondente al dovere dello stato di provvedere affinché tale diritto sia garantito. Ed è questa la strada imboccata da Johnson, la strada del dovere da parte delle istituzioni, riconoscendo apertamente che i programmi di de-radicalizzazione e riabilitazione semplicemente non funzionano. Può esistere la rarissima eccezione che conferma la regola, ma le politiche di gestione di detenuti jihadisti non possono essere basate sull’illusione contraria, come è stato finora.
I laburisti si stanno aggrappando all’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani, incredibilmente strumentalizzata a salvaguardia del presunto diritto di detenuti per reati correlati all’estremismo di uscire anticipatamente di prigione. Il Segretario alla Giustizia, Robert Buckland, ha però messo in chiaro che il Terrorist Offenders Bill non viola in alcun modo l’articolo 7, che proibisce l’introduzione di “una pena più pesante rispetto a quella applicabile al momento in cui il crimine è stato commesso”. La legge voluta da Johnson, precisa Buckland, si riferisce invece “al modo in cui la condanna è amministrata, non a un cambiamento dell’entità della pena”.
Tutto chiaro quindi: i terroristi condannati non potranno più ottenere la libertà prima di aver scontato la pena per intero, mentre il rilascio anticipato dovrà essere autorizzato da una commissione ad hoc. Una logica lineare, ispirata al comune buon senso, che dovrebbe essere priva di ogni connotato di specialità e andrebbe applicata anche ad altri paesi in Europa, come in Francia, dove gli attacchi terroristici degli ultimi anni, dai più sanguinosi stile Charlie Hebdo, Nizza, Bataclan, a quelli di più basso profilo, sono stati compiuti da soggetti quanto meno già noti alle forze dell’ordine.
L’Italia non sembra per il momento avere lo stesso problema britannico e francese. D’altro canto, al di là della fattispecie, la nuova sfida di Johnson deve servire a rilanciare la discussione sull’approccio da adottare nella lotta al terrorismo jihadista anche in Italia.
Le frequenti espulsioni di soggetti estremisti – l’ultima di un tunisino attivista per conto dell’ISIS è avvenuta giusto il 12 febbraio in provincia di Parma – funziona, evidenziando un’opera costante e capillare di monitoraggio. Ma la radicalizzazione è lì ben presente, altrettanto capillare e diffusa in tutto il territorio italiano, frutto dell’opera di proselitismo di moschee fai-da-te, centri culturali, scuole religiose e di arabo, sedicenti imam e militanti, nuclei familiari, detenuti indottrinatori e reclutatori nelle carceri. E non si può non menzionare il ruolo sempre più prevalente di internet e della jihad cibernetica. Tutto ciò fa sì che la minaccia terroristica resti elevata anche in Italia, come messo ben in evidenza nello studio sull’estremismo e la radicalizzazione realizzato dal Centro Alti Studi Averroè e presentato in una conferenza che si è svolta al Senato della Repubblica lo scorso 16 gennaio. Alla domanda se occorrono leggi “speciali” anche nel caso italiano, la risposta fornita dallo studio è affermativa.