Di Gianmarco Landi
Il tentativo di pilotare il senso della settantesima edizione del Festival con ‘scienza’ politically correct infusa dall’alto di un salotto chic è stato palese, ma non solo chi ha concepito il benpensante proposito non c’è secondo me riuscito, ma addirittura tutto lo show è risultato essere uno tripudio di umori e virtuosismi artistici dal genuino afflato nazionale, liberale e sovranista. Di Liberal c’è stato molto ma senza che esso riuscisse a incidere, poichè la differenza tra Liberale e Liberal non è una vocale ma concetti e visioni apparentemente eguali ma sostanzialmente antitetiche, come tra Brexit e Remain, Unioneuropeismo e Sovranismo, Patriottismo e Cosmopolitismo.
Fiorello ha ironizzato da par suo su tutti gli ‘ismi’ intellettualoidi, richiamandomi alla mente una poco conosciuta canzone di Povia sulla terminologia dei Bimbiminkia, che in questo Sanremo ci sarebbe stata proprio a pennello. Tuttavia senza rendersene conto, gli unici ‘ismi’ che sono passati vittoriosi sono proprio quelli più ostili al controllo delle elite cosmopolite, cioè quelli sottesi all’Ordine spontaneo delle cose tradizionali che si sono imposte all’Ariston scombussolando le basi costruttiviste su cui il Festival era stato invece concepito dai piani elevati di via Mazzini.
Nonostante il sermone malmostoso di Rula Jebreal, scritto da una nota autrice sinistroide bolognese che ha sapientemente imbeccato la barbie palestinese, o lo sproloquio di Benigni, improvvisatosi esegeta di sacre scritture con ambizioni sessuologiche, questo Festival di Sanremo ha celebrato un mix di slanci ‘tradizionalisti’ di carattere popolare e nazionale assai contundente verso tutta l’industria culturale e le sue ‘intellighenti’ narrazioni sinistroidi. Chissà se lo avranno capito!
Gli show a monologo imposti dalle Autorità del politicamente corretto non hanno inciso sul livello del messaggio sintetico di uno spettacolo che rispecchia grandemente il Paese nei suoi vizi ma anche nelle sue enormi virtù di genio, sregolatezza, individualismo, spirito di indipendenza e orgoglio nazionale.
Non importa qui ricordare a Rula che il tasso dei femminicidi nella civilissima Italia è 10 volte inferiore rispetto a quello dei cosiddetti ‘Paesi civili’ del Nord Europa, verso cui tutti noi italiani dovremmo inginocchiarci se volessimo cedere al suo ‘Buon Pensiero’ da globalista arabo mussulmana. Rula ha dimostrato di essere una femmina culturalmente in balia di predatori sessuali che esercitano dominio facendo finanza, cultura e spettacolo da New York, senza dissimilitudini sostanziali rispetto ai mercanti di cammelli di back ground beduino.
Ancora meno importante è spiegare all’ex comico Benigni come la difficoltà nell’approcciare le Sacre Scritture senza risultare dei cialtroni noiosi, sia nella complessa traduzione dall’ebraico antico, una lingua in origine senza vocali (aggiunte solo nel Medioevo) da cui discendono perciò tutte le molteplici e contrastanti traduzioni dell’Antico Testamento in greco e latino, nonché le preziose radici giudaiche della Civiltà Occidentale. Non vi è dubbio, anche se Benigni ha stravolto tutto ciò sproloquiando, che gli esseri umani abbiano iniziato a diventare civili proprio legandosi ad un luogo, lavorando la terra e avendo così una Patria e un Padre certo, cioè controllando con una qualche morale religiosa la ricchezza per la sopravvivenza e gli istinti animaleschi funzionali alla procreazione. Il cantico dei cantici di Benigni è stato perciò una prolusione di un’ignoranza animale, tipica della Sinistra più superficiale e triviale.
L’unica cosa che invece conta è che il Festival sia piaciuto molto al pubblico della Nazione, lo stesso che oggi vota in maggioranza per Salvini, ieri per i 5Stelle e l’altro ieri per Berlusconi. Chi non ha visto il Festival si è perso davvero qualcosa e come spiegherò nel seguito, a mio parere non solo gli intellettualoidi radical chic non ci hanno capito nulla sullo spettacolo che hanno inondato di lodi sperticate, ma il profilo intellettuale dei testi e dei messaggi degli artisti più celebrati, nega in profondità le narrazioni di cucina politica sinistroide attuale.
Non traggano in inganno, al pari di Rula e Benigni, l’esclusione dolorosa di Povia o l’esaltazione dei media gaycratici con gli sbaciucchiamenti di Tiziano Ferro, che rimane un formidabile cantante ma sempre una moglie adorabile assai presunta e praticamente impossibile. Tutto, a cominciare dai due assi giovanili della Radio negli splendidi anni della craxiana Milano da bere, Amadeus e Fiorello, ha veicolato la gioia per una festa all’Italia e alla potenza della sua Cultura Nazional Popolare. Il duo ha allestito un show caleidoscopico aperto, complesso e ridente come la lunga Storia della più bella penisola del Mediterraneo, cioè uno show sicuramente multicolor ma non arcobaleno; uno show di ampia fruibilità popolare ma anche colto, raffinato più intelligente dell’intellighenzia stessa.
La scorsa settimana ho visto la vecchia Deejey television di Cecchetto, lo stile Mike Bongiorno dei quiz Rai e Mediaset nell’aplomb di Amadeus, il ‘fragore’ del Festival Bar di Canale 5, il Karaoke e le piazze d’Italia di Fiorello, a suo modo un Salvini antelitteram anche se senza la vocazione del redivivo Alberto da Giussano e di ossequiare il primo canto degli italiani: quello di Mameli e dell’ogni luogo sia Legnano. Ed ho pure visto pure tra Albano e Romina o i Ricchi e Poveri, quella Fininvest dell’Erasmo da Rotterdam e Forza Italia, che ribaltò il disegno Love boat Britannia per degli anni 90 tutti svendita e manette. Per questo motivo ho scritto ‘multicolor’, cioè un aggettivo che si confà all’indescrivibilità dell’Italia, parola molto diversa dal sostantivo ‘arcobaleno’ che invece pretende di soppiantare e sostituire etno-culturalmente la mia identità nazionale.
Mi spiego meglio soffermandomi sullo show e sui testi di alcune canzoni che mi hanno particolarmente colpito.
I due anchorman, con impliciti ossequi al loro comune maestro, sono stati due servizievoli ‘conduttori’ di un gioca jouer 2020, all’atto di compiacere unicamente tutti i sensi del Popolo italiano, che non a caso, quindi, ha apprezzato perché ha goduto di un prodotto unico, di lussuoso artigianato locale dal valore artistico non catalogabile in box e sottoculture mitteleuropee piatte, grigie e sorde. Bravi in tante cose, ma soprattutto per non aver ospitato cantanti stranieri in quello che è stato uno vero e proprio Festival della Musica italiana.
Come dimenticare le gag di Fiorello che, con la spalla comica di Amadeus, sono state delle piccole rievocazioni degli spettacoli di mamma Rai stile Centrosinistra Sovranista anni sessanta. In Fiorello, ad esempio quando si è vestito da Maria De Filippi, io ho rivisto i redivivi ‘mostri’ di Raimondo Vianello, Ugo Tognazzi e Vittorio Gasmann (del 1963) e finanche Totò (il più memorabile uomo vestito da signora in Totò Truffa 1962) tutti sempre sulla televisione di Stato nel 2020 con immutato garbo, eleganza ed impatto comico culturale dirompente.
Qualsiasi teoria gender può solo crollare al cospetto di uno show in cui Maria De Filippi, così tanto Sovranista, se ci fa ridere a crepapelle è perché aprendo la busta del nostro inconscio ci conferma che è vero quello che tutti pensiamo, cioè che un uomo vestito come una donna ribadisce l’epiteto di Fantozzi rivolto alla Corazzata Potemkin :
per me, sta teoria gender, è una cagata pazzesca !
92 minuti di applausi…
Molti sono i cantanti e le canzoni che mi sono piaciuti e che mi hanno colpito per la dimensione intellettuale proposta.
Mi soffermerò solo su tre. Davvero belle e pregne di contenuto ho trovato le performance di Francesco Gabbani, Achille Lauro ed Elodie, che mi hanno lasciato qualcosa dentro.
L’autore di Occidentali’s Karma si è riconfermato un artista molto acuto, e con “Viceversa”, si è proposto di “spiegare il complesso meccanismo che governa l’armonia del nostro amore”. L’artista ci è riuscito perché se andiamo oltre il motivetto che ci rimane in testa, troviamo il senso filosofico del “viceversa”. La strofa principale ci chiarisce cosa sia Amore e di converso cosa sia il suo contrario (Odio) legittimo. Il parallelo in una relazione di rapporti politici più grandi in cui non ci sentiamo amati, non è immediato, ma sottile, insinuante, potente quando si cala in una dimensione collettiva ai nostri partner europei che non ci amano, se non ci fanno stare bene quando stiamo male. Gabbani canta:
“Ma se dovessimo spiegare in pochissime parole, Il complesso meccanismo che governa l’armonia del nostro amore, basterebbe solamente dire senza starci troppo a ragionare, che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa, che sei tu che mi fai stare bene quando io sto male e viceversa…”.
Cara Unione Europea, se questo “viceversa” non c’è, si capisce che non c’è alcun Amore nella tua visione di civiltà !
Idem con aggiunta di patatine gustose e un po’ laide, per il ‘genio incompreso’ da Opera e Mc Donalds, Achille Lauro, incensato dai Media quanto da lorsignori non del tutto compreso. Il ragazzo non è una semplice icona da gay pride, ma è molto di più con la sua arte fruibile da tutti. Osservo, infatti, che non solo la sua canzone ‘me ne frego’, coincide con il motto di un Italia da rivendicazione nazionaliste del Ventennio, e quindi con lo spirito ribelle verso l’establishment internazionale (il Minculpop favorì quel motto per questo motivo). Ovviamente questo motto fu promosso dal Regime nel Ventennio per infondere negli italiani l’emancipazione dall’establishment anglo-francese, e quindi il parallelo con il testo ‘wathsapp’ di Achille Lauro è assolutamente improprio, tuttavia quella strofa, ‘me ne frego, e non mi sfiori nemmeno’, ha un back ground nel patrimonio culturale degli italiani che sanno pensare in maniera distaccata da quello che gli altri vogliono, perché sono più inclini a fregarsene e a pensare in proprio, con tutto ciò di bello e di brutto questo significa. Achille Lauro ha cantato perorando il coraggio di ribellarsi con personalità alle etichette perbeniste e benpensanti, che oggi però non sono borghesi né cristiano cattoliche, ma politicamente corrette dal verbo sinistroide radicale della Globalizzazione. Il suo ostentato look essendo chiaramente Punk, ha sferrato un pugno alla Globalizzazione e all’uomo economico e materialista. Il Punk è un genere di musica, stile e cultura popolare, tipicamente popolare inglese, che ha per certi versi precorso la Brexit. Il Punk che Lauro ha rappresentato, è una ribellione estetica verso un’umanità di persone disumanizzate dai valori del consumismo e della regola di mercato predicata come dogma di espiazione, e come San Francesco e Elisabetta I° dei Tudor, di cui pure l’artista ha preso i panni sul palco, cantando il suo ‘me ne frego e non mi sfiori nemmeno’, ha lanciato un messaggio molto più colto di quello che l’Intellighenzia ha captato. I personaggi sanremesi di Lauro sono pregnanti nella storia dell’Umanità perché hanno saputo mettersi di traverso rispetto all’Ordine Globale del politicamente corretto illo tempore costituito, influenzando positivamente l’umanità tuttora. La prima Brexit, infatti, i britannici la fecero nel 1500 grazie al Regno della figlia di Enrico VIII e Anna Bolena, che ebbe il coraggio per rompere il dogmatismo papalino romanocentrico, e così creare le condizioni per trasformare un’irrilevante isola a nord del Vecchio Continente in un Impero che nei secoli successivi dominò il Mondo, tanto da imporci oggi la sua lingua come minimo denominatore comune delle elite. Ancora più forte è il senso profondo della carnevalata di Achille Lauro con San Francesco, attraverso cui l’artista ci ha ricorda che una volta, un uomo italiano del 1100, senza più ricchezze, con umiltà e amore è riuscito a stravolgere tutta un’Istituzione in apparenza molto più grande di lui e dei suoi pensieri, proprio perché il Santo se ne fregava e non si faceva sfiorare dagli insulti e dalle cattiverie che riceveva da parte di chi voleva mantenere lo Status Quo disprezzando il ripudio del materialismo.
Bisognerebbe conoscere la Storia d’Italia e quindi del Mondo, per capire la forza di certe cose, ed è per questo che alcuni Democratici americani di area Liberal detestano visceralmente il Sovranismo, Trump e la Storia tout court, tanto da riverberarla nell’abbattimento con odio chic delle statue di Cristoforo Colombo nelle principali metropoli USA.
Dulcis in fundo la ‘dea’ Elodie e la sua Divina Canzone.
Premetto che tendenzialmente detesto i tatuaggi vistosi sulla pelle delle donne, specie se molto fini e belle, ma quella croce latina tatuata sul braccio mi ha fatto ricredere. La cantante spuntata fuori da Canale 5 e Maria De Filippi mi ha rapito con quel vestito di Versace, nero elegante, scollato da farmi perdere di fiato. Lei è stata bella da vedere e bellissima da comprendere nell’arte di un testo cantato che richiama a tesori culturali di spessore dantesco. Andromeda è, secondo me, la canzone più intellettuale e profonda di questo Festival e forse di ogni Festival che io ricordi dal 1981. Ascoltando superficialmente la canzone può sembrare una canzonetta che perora l’emancipazione femminile (andare a Paris) smarcandosi dal ruolo di compagna affogata dalle vicissitudini quotidiane di un rapporto di coppia raccontato con le musiche contemporanee e con intercalari di voce da rapper, ma non è affatto così. La canzone ad un tratto prende forma di melodia e irrompe la figura mitologica a cui ci si richiama il pezzo. Andromeda cela un simbolismo di notevole importanza che travalica gli usi e i consumi del comune femminismo sessantottino, da cui il testo della canzone si sgancia. Andromeda è una situazione archetipica come l’Ulisse di Omero, cioè un modello di realtà avulsa dalla dimensione temporale: i nostri principi, le nostre idee, i nostri atteggiamenti di vita ricorrono perché insiti nella psiche di esseri umani in rapporto con il nostro universo interiore che ha una natura chiaramente mitologica. Andromeda fu una ragazza punita per una colpa di femminilità commessa da sua madre Cassiopea, che aveva irritato le Divinità dell’Olimpo. Per punire sua madre Andromeda fu incatenata ad una roccia sul mare, cioè alla terra, cioè alle passioni umane, e seviziata dalle brutture mostruose scatenate da una divinità maschile, Poseidone. Questo attaccamento alla materia, cui Andromeda fu relegata, Le impedisce di essere libera ma la sua condizione, ancorché il carnefice sia un mostro di riferimento maschile, è l’effetto non la causa, che è invece ascrivibile anche nella mitologia classica ad una ‘colpa’ insediata nella psiche femminile, con ciò testimoniando l’allaccio forte tra la Tradizione Classica e quella del peccato originale della Tradizione Giudaico Cristiana. Il mostro marino che infierisce su Andromeda incatenata alla roccia simboleggia tutte quelle forze della psiche, che la psicologia transpersonale definisce ombre, concetto peraltro già sussistente nella civiltà egizia, cioè quella parte oscura, maligna, irredenta dell’uomo/donna che obbedisce alle più basse pulsioni e cospira contro il suo padrone. Andromeda, la cui etimologia è assai importante (significa signora di tutti gli uomini), ha invece il giusto padrone nella dimensione interiore di un essere umano che diviene divino trovando il suo padrone dentro di sè. Il mostro scatenato dal cattivo comportamento della madre Cassiopea invece può fare un solo boccone di Andromeda, che in realtà simboleggia un’anima imprigionata (signora di tutti gli uomini), cioè ogni anima incatenata alla materia, e ai vari appetiti materiali e animali a cui l’uomo è costretto. Ovviamente mi riferisco anche al sesso, al cibo e agli altri bisogni terreni a cui l’essere umano si “prostituisce”, moglie, marito, troia, predatore sessuale che sia. A questo punto della mitologia greca soccorre l’intervento del nostro “eroe”: Perseo, il cosiddetto “Sé superiore” cioè quella coscienza che risponde agli input di una dimensione trascendente. Perseo si avvale di un “aiuto” dall’alto che nel mito è Pegaso, il cavallo alato, mentre nel Cristianesimo sono gli Angeli messaggeri di Dio, senza il quale nessuno uomo o donna ce la potrebbe fare a sconfiggere i mostri contro cui combattere.
Per questo il significato del femminismo che pure c’è nella canzone di Elodie è molto più potente di quello che sembra, perché non solo profila in nuce un femminismo più elevato, senza isterie manichee e senza condanna dei maschi e della mascolinità, ma perché punta l’indice contro un mostro che le vecchie femministe sessantottine non riconoscono e hanno subito rimanendo nel loro spirito incatenate alla roccia come Andromeda: il materialismo.
In conclusione tante altre sono le canzoni che mi hanno favorevolmente colpito e che hanno meritato la ribalta prestigiosa. Non posso dilungarmi oltre, ma lasciatemi però finire rimanendo ancora incantato dall’interpretazione, il testo e le musiche che ha proposto Tosca, una Edith Piaf versione Sanremo 2020. Senza nulla togliere al vincitore e alla sua bella canzone, per me avrebbe dovuto vincere lei, perché credo sia stata veramente capace ‘di farci uscire dalla finestra per fare tre passi via’ al termine di una qualche storia d’amore, la vita, per ambire di poter concludere con la gioia di poter dire “ho amato tutto”. Credo sia questo il lascito più pregnante di questo Festival Nazionale, Popolare, Liberale ed erede a suo modo, talvolta forse sguaiato, con smartphone, liti da reality e alcune parolacce di uso contemporaneo, di quel Dolce Stil Novo, di quell’Opera dagli italiani inventata, unitamente alle canzoni napoletane nel Regno delle Due Sicilie su cui la musica leggera si fonda, e attraverso cui tutte le genti di questa piccola Penisola si dimostrano ancora in grado di poter dare la loro luce a tutto il Mondo senza il bisogno di avere per dovere di qualche Trattato internazionale e qualche grigio funzionario ‘lumi’ per la testa.