Professore condannato a morte dopo una lezione all’università in Pakistan: “Non impiccate il prof”. Il suo è diventato un caso emblematico di come la legge “anti blasfemia” venga usata in Pakistan spesso in modo pretestuoso per indurre al silenzio persone “scomode”. Parliamo di Junaid Hafeez, 33enne professore universitario e attivista per i diritti umani accusato senza alcuna prova di blasfemia e per questo condannato all’impiccagione lo scorso 21 dicembre.
Il prof è accusato di aver apprezzato e diffuso posizioni offensive verso la sua stessa fede musulmana su Facebook e “per aver insegnato tematiche come i diritti delle donne nel suo Paese”, scrive Helen Haft, studiosa statunitense che ha condotto studi e ricerche sul tema della blasfemia e che in questi giorni ha lanciato una petizione su Change.org per far conoscere questo caso e per salvare Junaid Hafeez.
L’appello alla comunità internazionale raccoglie firme (quasi 300mila in pochi giorni) provenienti dall’Italia, dagli Stati Uniti, dalla Francia e dalla Polonia.
La storia del prof condannato a morte dopo una lezione all’università – L’uomo, docente all’Università Bahauddin Zakariya a Multan (città pakistana della regione del Punjab), vive in isolamento in carcere dal giorno dell’arresto, avvenuto nel 2013, sotto la costante minaccia di uccisione. Il suo avvocato Rashid Rehman, 53enne coordinatore della commissione per i diritti umani del Pakistan a Multan, è stato ucciso da due sicari per non aver rinunciato alla difesa di Hafeez.
Nel testo della petizione, la Haft – che come Junaid in passato ha preso parte al programma di scambio accademico Fulbright, uno scambio internazionale per studiosi, artisti e scienziati – ripercorre la storia di Junaid. “Dopo essere tornato in Pakistan dal Mississippi, Junaid ha voluto riportare ai suoi studenti la passione per la letteratura e la giustizia sociale. Junaid è stato accusato di blasfemia dopo aver insegnato tematiche come i diritti delle donne. Dopo una lezione cui ha partecipato una scrittrice, è stato accusato di aver detto cose blasfeme: studenti conservatori hanno infatti protestato e hanno indotto le autorità ad accusare Junaid di aver insultato il Profeta Maometto sui social media”.
L’urgenza di pervenire ad un ribaltamento in appello del verdetto – un’ipotesi, questa, non scontata – è aggravata dal rischio che il professore venga ucciso “in qualsiasi momento”, poiché, come ricorda Haft, “un’accusa di blasfemia in Pakistan equivale ad una sentenza di morte”.
Ed è per questo che la studiosa che ha lanciato la petizione chiede “che la comunità globale si attivi in solidarietà con Junaid e a difesa del diritto di parola”, sottolineando quanto “le leggi pakistane ad oggi hanno ridotto al silenzio attiviste e attivisti per i diritti delle donne, per i diritti umani, giornalisti, professori e cittadini comuni. Mentre minoranze religiose, dissidenti politici, liberi pensatori e intellettuali sono spesso presi di mira, le prime vittime sono gli stessi musulmani”.
“Da quando in Pakistan è stata introdotta la pena di morte per blasfemia negli anni ’80, si sono verificate 1500 accuse di blasfemia”, ricorda infine l’autrice della petizione. Mentre il contatore delle firme continua a crescere.