In un Paese normale, la prima udienza del processo d’appello per il caso dei coniugi Solano, massacrati nella loro abitazione di Palagonia, in Sicilia, il 30 agosto del 2015 da un ivoriano ospite del CARA di Mineo, sarebbe balzata sulle prime pagine di tutti i quotidiani. Invece così non è. Tocca allora ricordarla questa vicenda, che tanto dispiacere provoca agli aedi del politicamente corretto.
Vincenzo Solano, 68 anni all’epoca dei fatti, e la moglie Mercedes Ibanez, 70, erano due coniugi con una vita tranquilla. Che, dopo tanti anni trascorsi da emigranti in Germania, arrivati alla pensione si erano trasferiti nella terra natia di Vincenzo, la Sicilia, in una villetta dove quest’uomo avrebbe meritato una lunga e serena vecchiaia di riposo dai sacrifici e dalle fatiche di un’intera esistenza.
E invece, purtroppo, non è andata così. Sulla loro strada, i Solano, hanno incontrato un 18enne della Costa d’Avorio, Mamadou Kamara. Uno di quei ragazzi “in fuga dalla guerra e dalla disperazione”, come amano ripetere le anime belle. Una disperazione che questo ragazzo ha voluto probabilmente trasferire nella vita dei figli di Vincenzo e Mercedes, il primo ucciso e la seconda violentata e gettata dal balcone, dopo l’irruzione nella loro villetta, in quella serata di fine estate. Fermato poi all’ingresso del CARA con gli indumenti ancora sporchi di sangue, Mamadou fu immediatamente arrestato. In primo grado è arrivata, per lui, la condanna all’ergastolo.
Ma, dato che la giustizia italiana prevede tre gradi di giudizio, il suo legale ha fatto ricorso in appello. Per carità, legittimo. Ma legittima è anche la rabbia della figlia dei coniugi, Rosa, che lavora nel milanese e che da allora lotta insieme a UNAVI – Unione Nazionale Vittime, associazione presieduta da una combattiva e mai doma signora pavese, Paola Radaelli, affinché i suoi genitori abbiano giustizia.
Il 21 gennaio, data della prima udienza, di fronte al Tribunale di Catania, Rosa Solano farà parte di un presidio che vedrà la partecipazione, oltre che della stessa Paola Radaelli, anche dei genitori di Lorenzo Claris Appiani, l’avvocato ucciso mentre lavorava in tribunale, a Milano, sempre nel 2015. Solidarietà tra vittime di un sistema che, troppo spesso, sembra garantire maggiori tutele ai carnefici.
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