Nassirya: se il generale Stano diventa il capro espiatorio per i caduti

di Antonio Li Gobbi per  www.analisidifesa.it

Il 10 settembre 2019 la Corte di Cassazione ha confermato la condanna della Corte d’Appello di Roma, del generale Stano (all’epoca comandante della Brigata Sassari), che dovrà risarcire le famiglie delle vittime dell’attacco terroristico di Nassiriya avvenuta il 12 novembre 2003 e nella quale morirono 19 italiani: 12 Carabinieri, 5 militari dell’Esercito e 2 civili.

È opportuno sottolineare che il procedimento era di natura “civilistica”, in quanto per i medesimi fatti Stano era stato assolto in sede penale al termine di un altrettanto interminabile iter processuale.

Contestualmente, la Cassazione ha confermato l’assoluzione per l’allora colonnello dei Carabinieri Georg Di Pauli, oggi generale e all’epoca comandante del reparto Carabinieri dislocato nella base “Maestrale”, ovvero la base dove entrò il camion carico di esplosivo che provocò la strage.

La ratio della decisione sarebbe che il generale Stano avrebbe sottovalutato il pericolo in cui si trovava la base utilizzata dai carabinieri. A Di Pauli viene invece riconosciuto che avrebbe tentato di incrementare le misure di sicurezza, ma non avrebbe ottenuto dalla catena di comando il necessario supporto.

Stano (in Iraq nella foto sotto) dovrà pertanto risarcire sopravvissuti e famiglie delle vittime dell’attentato e l’entità dei danni da indennizzare dovrà essere quantificata in sede di ulteriori procedimenti sede civile.

Senza entrare nel merito giuridico che ha portato a tale sentenza, ai feriti e ai familiari delle vittime dopo 16 anni viene detto di fatto che se vogliono essere indennizzati dovranno far causa al signor Bruno Stano, forse attendere altri 16 anni per una sentenza definitiva che passi “in giudicato”, quindi chiedere al giudice di turno l’emanazione di un decreto ingiuntivo nei confronti del suddetto signor Stano, presumibilmente “insolvente”, che all’epoca sarà ultra ottantenne o che nel frattempo potrebbe essere emigrato in Amazzonia o in Groenlandia!

Peraltro le famiglie sono già state indennizzate e l’entità di tale indennizzo per i caduti in missione non dovrebbe variare a seconda dell’eventuale responsabilità o meno di qualcuno nella linea di comando, in quanto dovrebbe essere sempre lo Stato pienamente responsabile nei loro confronti dei propri servitori.

Infatti, l’attacco non è stato condotto contro un cantiere della “Stano Costruzioni srl”! I caduti e i feriti non avevano un contratto di natura privatistica con il signor Bruno Stano. Erano in Iraq (se militari) perché ce li aveva mandati lo Stato Italiano, avvalendosi di una ben articolata struttura gerarchico-funzionale, o (se civili) da tale struttura erano stati autorizzati a recarsi sul luogo, sotto protezione militare!

Pertanto non è tollerabile che lo Stato si nasconda dietro un Bruno Stano qualsiasi! È lo Stato in quanto tale che deve rispondere a reduci e famiglie delle vittime e confrontarsi, anche in sede civilistica ed economica, con tutte le loro richieste, valutate nella loro legittimità.

Cosa che non può essere fatta dopo 16 anni. Non si tratta di chiedere l’impunità per i generali ma se Stano o altri hanno sbagliato, è giusto che lo Stato si rifaccia su di loro penalmente, disciplinarmente e anche economicamente per “danno erariale” (cosa che molti vorrebbero accadesse anche per i magistrati che sbagliano).

Peraltro tale rapporto, con tutte le relative lungaggini per determinare eventuali responsabilità, deve restare tra il comandante che è stato designato dalle autorità governative e lo Stato. Vittime e familiari delle vittime, che erano là inviati dallo Stato, devono essere risarcite tempestivamente ed equamente indipendentemente dalle eventuali responsabilità dei comandanti interessati.

Ora i neo-sindacati militari chiederanno che chi viene inviato in missione possa decidere se andarci o meno dopo aver controllato lo stato patrimoniale del proprio comandante, per verificare che, in caso di incidenti, lo stesso possa realmente farsi carico dei relativi indennizzi economici?

Si prospettano tempi bui per gli eredi dei generali Luigi Cadorna e di Pietro Badoglio se famigliari ed eredi dei caduti di Caporetto o degli Internati Militari nei campi di concentramento tedeschi dovessero adire a vie legali per chiedere eventuali indennizzi.

Vale poi la pena formulare alcune considerazioni in merito alle presunte responsabilità del Generale Stano.

Le scelte su dove dislocare i reparti nelle odierne operazioni di “crisis response” non vengono (purtroppo) assunte in totale autonomia da un comandante sul terreno e non vengono dettate esclusivamente da esigenze tattiche e militari. Le autorità nazionali entrano nel merito e spesso impongono scelte che da un punto di vista tattico possono apparire poco sensate.

Quando nel freddo dicembre del 1995 il contingente italiano, su base Brigata Bersaglieri “Garibaldi”, si schierò nella poco felice dislocazione dell’ex-ospedale di Sarajevo, che presentava seri problemi sia per la sicurezza che per le condizioni di vita delle truppe, fu anche (e forse soprattutto) perché vi era una forte pressione del ministero degli Esteri affinché il contingente italiano fosse in centro a Sarajevo e all’interno di quella specifica infrastruttura.

Lo spostamento nel 2006 del nostro Provincial Reconstruction Team da una villa ben poco difendibile nel centro di Herat all’aeroporto integrato nella base NATO di Camp Arena (dislocazione ben più sicura) avvenne solo dopo lunghe discussioni a Roma, dove si confrontavano contrastanti considerazioni di “visibilità” e “sicurezza”.

A Nassiriya la base “Maestrale” era in pieno centro, lungo il fiume Eufrate ed in area dove l’imposizione di aree di rispetto ad ampio raggio avrebbe ulteriormente impattato su un traffico che poteva mandare in cura psichiatrica anche un tassista napoletano.

Quindi, checché ci fosse scritto sugli ordini di operazione e documenti vari, tutti sappiamo che se anche Stano avesse voluto, ad esempio, far evacuare base “Maestrale” e trasferire i carabinieri nella più sicura base di “White Horse” (a circa cinque chilometri dalla città), non avrebbe assolutamente potuto farlo senza un’autorizzazione da Roma.

Autorizzazione che avrebbe visto il coinvolgimento del Comando Operativo di Vertice Interforze, del Comando Generale dell’Arma e di Stato Maggiore Difesa, nonché della stessa autorità politica, perché su base “Maestrale” si insisteva (in quanto in città) anche per questioni di visibilità e di efficacia del reparto dei carabinieri cui era affidato anche l’addestramento della polizia irachena.

Occorre inoltre tener conto della situazione in Italia al momento in cui avvenne l’attentato. Il Governo Berlusconi si era aggregato a un’operazione di stabilizzazione dell’Iraq post-saddam autorizzata dall’Onu ma a guida statunitense che in casa si tentava di far passare come “operazione di pace” ma che non si svolgeva assolutamente in un contesto “di pace” e comportava rischi ben maggiori dei recenti interventi nei Balcani.

Questo comportamento decisamente ambiguo ebbe conseguenze negative in diversi settori. In campo legale, il contingente non era soggetto al Codice Penale Militare di Guerra, ma a quello di Pace, che non è idoneo a contemplare situazioni quali quelle in cui in realtà i nostri militari operavano.

Analogamente, le regole d’ingaggio nazionali, ovvero le normative che regolano il ricorso alla forza e la capacità di reazione dei nostri soldati, erano molto più restrittive di quelle adottate dai contingenti USA e UK, che operavano al nostro fianco, dato che (solo per gli italiani) si trattava di un’operazione di “pace”.

Nel campo degli armamenti ed equipaggiamenti, le autorità governative non autorizzarono l’invio di mezzi corazzati (che avrebbero potuto essere utilizzati anche per rafforzare check-points di fronte alle nostre basi) così come di altri mezzi (elicotteri d’attacco, droni, artiglierie ecc) che sarebbero serviti nel contesto iracheno.

L’atteggiamento cambiò (ma con molta cautela) solo “dopo” l’attacco alla base “Maestrale” e, soprattutto, dopo la “Battaglia dei Ponti”, nella primavera-estate del 2004.

Nel campo dell’immagine, era considerato essenziale insistere sull’immagine degli “italiani brava gente”, ovvero soldati che si dedicassero anche (anzi soprattutto) alla cooperazione civile militare e che avessero un rapporto “amichevole” con le popolazioni locali.

In tale contesto, avere basi dentro la città e tra la gente (anziché essere arroccati in postazioni facilmente difendibili “fuori” dai centri abitati, come White Horse o l’aeroporto di Tallil) rispondeva perfettamente a questa esigenza di immagine.

Pertanto, anche se il generale Stano, appena arrivato in Iraq, avesse chiesto a Roma di sgombrare la base “Maestrale” e pure la “Libeccio”, altra base dei carabinieri sulla riva opposta del fiume, molto probabilmente gli sarebbero state opposte diverse motivazioni per scongiurare tale iniziativa.

Oggi a Stano viene imputato ed aver sottovalutato il “pericolo di una base troppo esposta” e di aver “ignorato gli allarmi dell’intelligence”.

Se la base era “troppo esposta”, lo era evidentemente sin da prima dell’arrivo di Stano a Nassiriya. Inoltre, non possiamo trascurare il fattore tempo. Ricordiamo che l’operazione “Antica Babilonia” era stata avviata il 15 luglio 2003 con contingente incentrato sulla Brigata Garibaldi a cui è subentrata la Sassari di Stano solo nella seconda metà di ottobre 2003. Se appena giunto sul campo il generale si fosse reso immediatamente conto dei pericoli che minacciavano la base Maestrale (pericoli evidentemente ignorati da chi era stato a Nassiriya prima di lui) quanto tempo avrebbe avuto Bruno Stano (perché l’unico condannato è stato lui) per intervenire e far adottare tutti i provvedimenti necessari a evacuare la base o metterla in sicurezza?

In merito agli allarmi dell’intelligence chi è stato in Iraq o in Afghanistan ricorda certamente che si tratta di allarmi quasi giornalieri che indicavano il pericolo di un attacco suicida condotto con SUV bianco o con una Toyota bianca.

In stanze romane con l’aria condizionata a palla, indicazioni del genere sembrano particolarmente accurate e ci si stupisce che non portino ad alcun risultato. Peccato che a Nassiriya, Bagdad, Kabul o Herat, le autovetture circolanti siano quasi tutte SUV o Toyota rigorosamente bianche.

In conclusione, anche se le indicazioni di pericolo fossero state veramente precise il generale Stano non avrebbe avuto il tempo di modificare sostanzialmente la situazione nel breve periodo tra la sua assunzione di comando e l’attentato qaedista.

In ogni caso, data la pressione politica e mediatica sull’operazione, difficilmente gli sarebbe stato consentito di assumere decisioni radicali quali la chiusura di una base del contingente.

Inoltre, se la catena di comando avesse rilevato carenze anche minime nell’azione di comando dell’allora generale di brigata Stano, non lo avrebbe promosso generale di divisione prima e di corpo d’armata dopo. È, pertanto, evidente che la catena di comando “tecnica” nulla abbia rilevato di negativo attribuibile all’azione di comando di Stano.

Infine due elementi rendono particolarmente triste questa vicenda. Da un lato si illudono gli eredi delle vittime che potranno ottenere compensazioni economiche che il singolo colpevole non potrà mai erogare, e lo Stato lo sa.

Dall’altro, lo Stato si nasconde e prende un suo servitore a caso, in questo Bruno Stano, e ne fa un capro espiatorio. Un tradimento doppio: nei confronti delle vittime e dei loro familiari e nei confronti di un soldato trasformato in agnello sacrificale. Il 10 settembre è stata una giornata triste per la credibilità delle istituzioni e per quelle “stellette” che sono state portate con onore dai caduti e dai feriti di Nassiriya così come da Bruno Stano.