E’ impossibile non sentire puzza di bruciato. Il Lussemburgo ha 600 mila abitanti, ma accoglie investimenti diretti dall’estero per 4 mila miliardi di dollari, quanto gli Stati Uniti e più della Cina: in pratica, il mondo investe in Lussemburgo per una cifra pari a 6 milioni e mezzo di dollari per abitante. Non stiamo parlando di investimenti in generale, tipo l’acquisto di azioni in Borsa o quote di fondi. Stiamo parlando di Fdi, foreign direct investment, cioè gli investimenti in attività reali: comprare aziende, alzare capannoni, impiantare macchinari, assumere personale. Tutte cose che richiedono gente e spazio: dove metterà materialmente questa montagna di soldi il minuscolo Lussemburgo? La risposta è ovvia: da nessuna parte. Quei 4 mila miliardi di dollari, dice una ricerca del Fondo monetario internazionale, sono “investimenti fantasma”.
Come scrive Maurizio Ricci su Repubblica, a volte si alzano i coperchi delle statistiche e si scopre che non c’è da fidarsi dell’etichetta: come nelle vecchie truffe all’americana, nella cassetta, invece di fruscianti fasci di banconote, ci sono solo strisce di carta straccia. Ora capita con una delle statistiche più pregiate. Gli investimenti diretti dall’estero sono, infatti, il fiore all’occhiello di qualsiasi governo: la prova della vitalità di una economia, della fiducia del mondo in un paese, nelle sue strutture, nei suoi lavoratori, soprattutto, nelle sue prospettive. Balle, spiegano i ricercatori del Fmi e dell’Università di Copenhagen: è molto spesso solo fumo, senza arrosto. Il 40 per cento degli investimenti dall’estero sono finzioni ad uso del fisco: fusioni mirate o “shell companies”, società create come scatole vuote in cui parcheggiare profitti.
Qualcuno ricorda il “Dutch sandwich with double Irish”? Invece della voce di un menù da fast food, il “panino olandese con doppio irlandese” è il meccanismo con il quale la Apple, triangolando i suoi profitti fra una sede irlandese, un ufficio in Olanda, un rimbalzo ad un’altra sede irlandese, con destinazione finale alle Bermuda, riesce a pagare solo spiccioli di tasse sulle sue royalties miliardarie. Sembrava l’ingegnosa trovata di un fiscalista molto sveglio. Invece, no: così funziona quotidianamente l’intero capitalismo internazionale.
L’Fmi ha calcolato che, su 40 mila miliardi di dollari di investimenti diretti mondiali, ben 15 mila miliardi sono fumo, appunto, negli occhi del fisco. Invece di registrare operazioni come l’apertura di una fabbrica Bmw in Georgia o un centro di ricerca Huawei in Lombardia, 4 dollari su 10 sono il risultato della creazione di scatole vuote societarie, prive di qualsiasi attività economica e con il solo compito di far sparire profitti. Per restare – come fa l’Fmi – sul caso Apple. La società di Cupertino non produce i suoi iPhones in Irlanda, neanche li disegna lì, fra Dublino e Cork. Ma Apple Irlanda è uno degli investimenti più lucrosi della società oggi guidata da Tim Cook. La Apple, del resto, non è sola: i due terzi del Fdi irlandese sono investimenti fantasma.
Le cifre – nuove – sono impressionanti, ma il fenomeno non è una sorpresa. Se ne parla intensamente ormai da dieci anni, dall’ultima crisi finanziaria. Ci sono stati dibattiti, vertici, comitati ad hoc, web tax introdotte da vari paesi in ordine sparso, ritocchi a ripetizione delle tasse sulle società, tentativi di coordinamento internazionale. Tutto questo non ha cambiato nulla. Anzi: la quota fantasma del Fdi, che, nel 2010, era del 31 per cento, nel 2017 era salita al 38 per cento.
Toglietevi dalla testa l’immagine di annoiati ragionieri che cucinano, ad uso del fisco, i libri contabili all’ombra delle palme con un Negroni in mano. Semmai, birra e wurstel e qui, dietro casa, in paesi che spesso impartiscono lezioni sulla probità e il rigore fiscali. Metà degli investimenti fantasma mondiali sono una esclusiva del fisco compiacente del Lussemburgo e dell’Olanda. Il resto si ripartisce fra Irlanda, Malta, Svizzera, Hong Kong, Singapore, le isole della Manica e, sì, per un po’ anche Isole Vergini, Bermuda e Cayman.