Feste patronali per clandestini, l’invasione globale riduce tutto ad un suk

di Marcello Veneziani

Il santo, la banda, gli spari, l’illuminazione. In estate i paesi festeggiano il loro compleanno, la festa patronale. Le concentrano nell’arco estivo per farle coincidere col ritorno in patria degli emigrati. Ci torno anch’io. Ma mi aggiro tra luminarie e bancarelle come uno straniero in patria, circondato da neri che vendono elefanti in legno, cd masterizzati, gusci e caricatori di cellulari, arabi che sciamano con imprecisati malloppi nei vicoli del centro storico, bangla che vendono bevande tipiche come la coca-cola, peruviani col loro artigianato finto etnico, più qualche cinese con la testa a melanzana che vende cianfrusaglie di pacchiana inutilità.

Torni nella piazza del tuo paese per cercare il sapore del tempo perduto e ti sembra di essere sceso in Senegal o in Costa d’Avorio. Sotto il monumento dei caduti hanno allestito un campo profughi per neri, il diurno è una specie di ricovero per maghrebini homeless, lo stand dei cinesi occupa il giardinetto dove pomiciavano un tempo i ragazzi del paese alle prime armi. I luoghi più tipici del tuo paese sembrano i padiglioni di una fiera internazionale; cerchi la tradizione e trovi la globalizzazione, girone sfigati. Torni nel grembo materno della tua terra e trovi l’ipermercato dei vu cumprà. Una festa, insegnano gli antropologi ma anche l’esperienza della vita, è un evento che segna la fuoruscita dalla vita quotidiana. Invece l’invasione globale riduce la festa ad un suk in cui si vendono le stesse cose di ogni luogo e di ogni giorno.

Fanno tenerezza i venditori abusivi extracomunitari quando raccolgono velocemente i loro fagotti all’arrivo dei poliziotti e si disperdono con fagottoni immensi sulle spalle; lampeggiano i loro occhi bianchi di paura in quelle facce nere spaventate. Capirei persino una specie di festa dell’ospitalità dedicata al loro commercio. Ma la festa patronale no. Siamo animali multipli, abbiamo bisogno di esperienze plurali. La festa patronale è la festa delle nostre origini, che ci riannoda alle tradizioni, ci riconcilia con il mondo dei nostri padri e dei nostri nonni, con l’infanzia e il mondo nostrano. Non possiamo farla diventare giochi senza frontiere, il Bronx o una specie di raduno degli sfollati del pianeta. Meglio abolirla, a quel punto, piuttosto che snaturarla in una specie di notte bianca, standard e globale. Scherza coi fanti ma lascia stare i santi.

Che ci azzeccano i negri con San Pantaleone e i cinesi con la Madonna del Pozzo? Chi dice che questo è razzismo è un cretino. Il razzismo nasce al contrario da chi non comprende l’esigenza di coltivare il locale oltre al globale, di tutelare l’identità e le differenze a fianco della solidarietà. Se schiacciamo tutto con un rullo compressore, allora esplodono le identità represse e mortificate e assumono forme aggressive, tribali, razziste, xenofobe. Una persona, una comunità, hanno bisogno di occasioni per aprirsi al mondo e per conoscere, e di occasioni per ritrovare il proprio habitat, la propria casa, ciò che è specifico e inconfondibile. Abbiamo bisogno di novità ma anche di rassicurazioni. Non puoi tornare a casa e trovare un cinese al posto di tua madre. È come se alla sagra del pesce azzurro vendessero cotolette alla milanese.