Caso Siri: le mosse che Salvini potrebbe fare per non farsi fregare dal M5S

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma su Libero, 07/05/2019
Consiglio dei ministri sul «caso Siri». Il presidente del consiglio Conte ha dichiarato che della questione se ne è già parlato in un consiglio precedente, ma di certo mercoledì è il giorno in cui si tireranno le somme. Noi una soluzione su questo giornale l’avevamo proposta: rinviare la decisione su Siri a dopo le elezioni europee. In fin dei conti non muore nessuno se si dovesse parlare anche di Siri in occasione del rimpasto di governo che ci sarà dopo le elezioni, visto il mutamento dei rapporti di forza elettorali che causerà il voto del 26 maggio.

Ma Di Maio non ha intenzione di mollare, continua ad accusare la Lega di voler trovare un pretesto per far cadere il governo, quando invece lui – trovandosi chiaramente in difficoltà nella competizione elettorale – vuole la testa di Siri solo per mettere in difficoltà Salvini, presentando la Lega come un partito di corrotti, mentre il M5s resterebbe il partito dell’onestà. Giuseppe Conte, che da avvocato conosce benissimo il principio della presunzione di non colpevolezza, ha deciso di seguire Di Maio e quella parte di magistratura che – con un semplice avviso di garanzia – cerca di far cadere l’esecutivo. Diciamolo chiaramente: non ci sta facendo una bella figura.

Il caso merita due ordini di considerazioni. La seconda è tecnica e giuridica, e ci scusiamo per la lunghezza, ma occorre essere precisi. Cominciamo da una prima considerazione, peraltro molto banale. I 5Stelle con la loro richiesta stanno chiaramente violando le regole del contratto di governo, che nel «codice etico dei membri del governo» prevede che non possa far parte dell’esecutivo (a parte chi ha già riportato condanne per determinati reati, o appartenga alla massoneria o siano in conflitto di interessi) chi è «sotto processo» per reati gravi come mafia, corruzione, concussione etc. Armando Siri ha ricevuto per ora solo un avviso di garanzia per corruzione, mentre la locuzione usata nel contratto («sotto processo») presuppone tecnicamente un rinvio a giudizio oppure un decreto di citazione diretta a giudizio, due atti che a loro volta presuppongono l’esercizio quantomeno dei primi diritti di difesa.

L’ACCORDO PARLA CHIARO

Nel caso Siri siamo ancora all’avviso di garanzia, quindi è evidente che Di Maio sta calpestando il contenuto del contratto di governo. In ogni caso Salvini avrebbe buon gioco a richiamare il contratto e ad esigere, come del resto lo stesso prevede, la risoluzione del caso tramite il comitato di conciliazione che dovrebbe affrontare i contrasti insorti in seno al governo. Insomma, è palesemente Di Maio dalla parte del torto, non Salvini. È evidente l’uso politico della vicenda in vista delle elezioni europee: Di Maio sta cercando in ogni modo lo scontro con Salvini provocandolo quotidianamente, con l’aiuto di giornaloni e televisioni, per cercare di guadagnare qualche punto sulla Lega che resta comunque in netto vantaggio.

Salvini ha comunque una ulteriore carta da giocarsi: quella di sollevare il conflitto di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. È già successo nel 1995 col caso del ministro di grazia e giustizia del governo Dini, Filippo Mancuso, ma oggi la situazione è più complicata. Il conflitto di attribuzione, disciplinato dall’art. 134 della Costituzione e dalla Legge n. 87/1953, si verifica quando è dubbia di chi sia l’attribuzione (su determinate materie o competenze) tra i poteri dello Stato. A decidere, ai sensi dell’art. 37 della Legge n. 87/1953, è proprio la Corte costituzionale. Nel caso in questione il conflitto è il seguente: a chi spetta – tra Consiglio dei ministri (cioè il governo), Parlamento e presidente della Repubblica – la revoca di un ministro o di un sottosegretario? Ricordiamo che Siri è sottosegretario al ministero delle Infrastrutture e dei trasporti. E qui bisogna andare coi piedi di piombo perché la questione è complicata.

CHI HA IL POTERE?

Il primo comma dell’art. 92 della Costituzione recita: «Il governo della Repubblica è composto del presidente del Consiglio e dei ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei ministri». Il governo dunque non include anche i sottosegretari. Tuttavia la loro figura è fondamentale per il buon funzionamento dell’esecutivo, ed ha ricevuto espresso riconoscimento legislativo con l’art. 10 della Legge n. 400/1988: «I sottosegretari di Stato sono nominati con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, di concerto con il ministro che il sottosegretario è chiamato a coadiuvare, sentito il Consiglio dei ministri». Ed è proprio sulla base di questa disposizione che il presidente del consiglio Conte – che di sua mano non può revocare né ministri né sottosegretari – riterrà valida la competenza del governo sulla materia e proporrà al Consiglio dei ministri l’atto che prende il nome di «proposta di revoca» della carica di sottosegretario di Armando Siri, atto sul quale il Consiglio dei ministri esprimerà il proprio voto. Se approvata (i ministri pentastellati sono di più di quelli leghisti), la proposta di revoca passa al presidente della Repubblica, che per il secondo comma dell’art. 92 della Costituzione è quello che ha il potere formale di nominare ministri e sottosegretari. È esattamente prima di questo passaggio (Palazzo Chigi – Quirinale) che deve innescarsi il ricorso per conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale.

Salvini potrebbe prima fare un’altra cosa. È pur vero che il presidente del Consiglio può fondare la competenza del Consiglio dei ministri sulla base di un’interpretazione estensiva dell’art. 10 della Legge n. 400/1988, ma è altrettanto vero che gli articoli 5 e 10 della medesima legge non menzionano espressamente questa facoltà né in capo al Consiglio dei ministri, né in capo al presidente del Consiglio. Si tratterebbe appunto di una interpretazione estensiva della disposizione. Salvini, in prima battuta, potrebbe dunque contestare in seno al Consiglio dei ministri di mercoledì la competenza del Consiglio stesso, chiedendo un aggiornamento della seduta al fine di richiedere un parere da parte degli uffici competenti di Palazzo Chigi. Qualora il Consiglio dei ministri, che si compone in maggioranza di ministri pentastellati, dovesse insistere ed adottare ugualmente la «proposta di revoca», a Salvini non resterebbe che esperire il mezzo del conflitto di attribuzione.

IL RUOLO DEL PARLAMENTO

A presentarlo può essere direttamente il sottosegretario Siri? Come si è detto, l’art. 92 della Costituzione non prevede la figura dei sottosegretari quali componenti del governo, quindi il ricorso può essere presentato da Salvini nella sua veste di ministro dell’Interno (quindi come membro effettivo del governo), anche perché Matteo è segretario politico nazionale del gruppo parlamentare Lega-Salvini premier (Siri è sottosegretario in «quota Lega»). Atto da impugnare per conflitto di attribuzione è il documento col quale il Consiglio dei ministri avanza al presidente della Repubblica la «proposta di revoca» di Siri come sottosegretario, mentre oggetto del conflitto è il seguente: chiedere alla Corte a chi spetti decidere – tra Consiglio dei ministri, presidente della Repubblica e Parlamento – sulla revoca di un sottosegretario. Già, non è detto infatti che la partita sia solo tra governo e presidente della Repubblica. Del gioco fa parte anche un terzo soggetto, il Parlamento. Il governo esercita a pieno le sue funzioni solo se sussiste un rapporto fiduciario continuativo tra l’esecutivo ed entrambe le Camere (art. 94 della Costituzione). I sottosegretari, pur non facendo parte in senso stretto del Consiglio dei ministri, sono comunque normati da una legge ordinaria (Legge n. 400/1988), quindi il rapporto fiduciario – per analogia e per estensione degli effetti del rapporto di fiducia – investe anche loro. A questo punto il ricorso per conflitto di attribuzione dovrebbe contenere anche tale aspetto, esattamente in questi termini: l’art. 115 comma 3 del Regolamento della Camera dei deputati prevede la possibilità per la Camera (facoltà riconosciuta anche al Senato in forza del parere del 24 ottobre 1984 della giunta per il regolamento del Senato) di presentare mozione di sfiducia individuale, cioè nei confronti di un singolo ministro. Mozione che, se approvata, comporta l’obbligo di dimissioni da parte del singolo ministro sfiduciato (sentenza Corte costituzionale n. 7/1996). La Corte, infatti, essendo la nostra una Repubblica parlamentare fondata sul rapporto di fiducia tra governo e Parlamento, potrebbe risolvere il conflitto di attribuzione assegnando il potere di revoca di singoli ministri – ma anche di singoli sottosegretari – alle sole Camere sulla base della facoltà che queste hanno nel presentare mozione di sfiducia individuale prevista dai regolamenti parlamentari, che nella gerarchia delle fonti del diritto sono equiparati a leggi costituzionali.

LA SOSPENSIVA

Ma ciò non basta ad evitare che il capo dello Stato ponga la sua firma sulla «proposta di revoca» avanzata dal Consiglio dei ministri. Nel ricorso per conflitto di attribuzione va pertanto richiesta la «sospensiva» della proposta di revoca. Sospensiva che verrà comunque respinta perché, ai sensi dell’art. 40 della Legge n. 87/1953, la Corte costituzionale può concederla solo nei conflitti di attribuzione tra Stato e Regioni oppure tra Regioni. In questo caso il conflitto è tra poteri dello Stato. Poco però importa. La richiesta di sospensiva serve soltanto a fermare momentaneamente la penna del presidente della Repubblica e rinviare ogni decisione a dopo le elezioni europee, tanto più che la Corte dovrà in ogni caso assegnare alle parti resistenti nel giudizio i termini a difesa, che sono irrinunciabili. E si arriva così, pur contingentando con ogni sforzo tutti i termini, a dopo le elezioni.

Insomma, a Salvini non deve interessare che la Corte accolga nel merito il ricorso per conflitto di attribuzione. Quanto qui proposto evita qualsia crisi di governo – a meno che non sia il M5s in modo irresponsabile ad aprirla – serve solo per calciare la palla in tribuna e rinviare la «questione Siri» a dopo le elezioni europee, con un rapporto di forza Lega-M5S invertito rispetto agli esiti elettorali del 4 marzo dell’anno scorso. E allora a qualcuno converrà abbassare la cresta, perché far cadere il governo a un Di Maio – che uscirà indebolito dal risultato elettorale con il rischio di nuove elezioni nazionali – non conviene. Anche se Di Battista ha già iniziato a riscaldare i muscoli, crediamo che Di Maio non voglia finire così presto in panchina.