Franceschini, Zingaretti e Fico: ecco l’inciucio M5s-Pd

Dario Franceschini è in crisi di astinenza da potere e sta tornando sul luogo del delitto mancato un anno fa: un’ alleanza di governo tra Partito democratico e MoVimento Cinque stelle. Fantapolitica per tossici sfessati? Mica tanto. È notizia di queste ore che l’ ex ministro della Cultura sta brigando per allestire una possibile maggioranza alternativa a quella gialloverde nella quale Nicola Zingaretti, neosegretario del Pd, sarebbe l’alleato fondamentale di Roberto Fico e della sua ala sinistra grillina che fa la fronda a Luigi Di Maio. L’ operazione sembra impervia ma dietro deve esserci qualcosa di reale, se è vero che accanto a Franceschini sta lavorando nientemeno che Goffredo Bettini. Si deve a lui, in effetti, se Zingaretti ha appena definito i grillini come «vittime della Lega». Per quanto consapevoli e nient’ affatto innocenti.

Bettini è stato il plenipotenziario di Walter Veltroni nella sua lunga stagione da sindaco di Roma e in quella più breve di fondatore e primo leader del Pd. Insomma una vecchia e grossa volpe da battaglia che ama annidarsi lontano dal cono di luce, perché alla ribalta effimera del palcoscenico preferisce l’ ombra fattiva delle quinte. Gran tessitore, consigliere discreto, conoscitore del potere quello vero: insomma il sodale perfetto per il volpino Franceschini che fiuta l’ odore della crisi gialloverde e non vede l’ ora di tornare al centro della scena.

IL PRECEDENTE – Fu lui, in tempi già sospetti, dopo il 4 marzo 2018, a funeralizzare per primo la segreteria renziana e a gettarsi voluttuosamente nel sogno di una “legislatura costituente”. Obiettivo: dimenticare il bullo di Rignano, trafficare con la vecchia nomenclatura del partito e offrire a Casaleggio e Di Maio un patto di sistema per salire orgoglioso e spedito alla presidenza della Camera. Il disegno allora sembrò piacere addirittura al capo dello Stato, Sergio Mattarella, del quale Franceschini s’ intestò di straforo il ruolo di portavoce occulto. Ma Renzi uccise il progetto in culla (in diretta televisiva da Fabio Fazio) e a quel punto Dario il suggeritore s’ inabissò nell’ attesa di una seconda opportunità.

Ecco: se c’è un tratto distintivo del volpino ferrarese sta in quel suo svolgere e avvolgere il tradimento in una cortina fumogena di volta in volta chiamata “opportunità” o necessità di un “cambio di passo” di una “discontinuità”. È a questo repertorio di antico democristianesimo che Franceschini, scudocrociato dal cuore rossissimo, ha sempre ripescato nelle circostanze topiche della sua carriera. Quel che gli è accaduto con Renzi era accaduto con il citato Veltroni dopo la sua sconfitta contro il fortissimo Pdl berlusconiano nel 2008. A distanza di poche settimane, perduta anche la Sardegna, Walter si ritrovò sul banco degli imputati con l’ ex amico Franceschini nelle vesti del pubblico ministero.

CAMBI DI CASACCA – Rimosso Veltroni, fu lo stesso Dario a traghettare il Pd in una specie d’ interregno nel quale perfezionò la costruzione della sua sinuosa e decisiva corrente. Con quel gruzzolo di potere avrebbe poi sfidato Pier Luigi Bersani alle primarie, perdendo, salvo poi convincersi che sarebbe stato un buon segretario da appoggiare. Ma fino alla sconfitta del 2013, quando Franceschini divenne ministro dei Rapporti con il Parlamento nel governo grancoalizionista di Enrico Letta. Il tempo di prendere confidenza con il nuovo scenario e il nostro Dario si reinventò renziano guadagnandoci la promozione ai Beni culturali, dove sarebbe rimasto al servizio del nuovo premier Paolo Gentiloni, dopo il funesto referendum del 2016.
E rieccolo dunque al punto di partenza: zingarettiano fatto e finito, contrabbandiere di ribaltoni parlamentari e agente non più segreto di un interesse personale chiamato vanità, ovvero il secondo nome di Dario Franceschini.

di Alessandro Giuli – –  www.liberoquotidiano.it