Il politicamente corretto genera mostri: è la «cultura del piagnisteo»

Giovanni Sallusti per “Libero Quotidiano”

Moriremo prima. Prima dell’ attentato definitivo, prima dell’ invasione ultimata, prima dello scontro finale di civiltà. Uccisi da cosa? Da noi stessi, dalla caricatura politicamente corretta che ci ha soppiantato, dall’ isteria di (non) fare e di (non) dire, la paura del linguaggio, che è anzitutto paura della realtà.

Storia dal profondo Veneto. Concessionaria storica di Treviso, fondata nel 1952 e tuttora guidata dalla stessa famiglia, in dote marchi internazionali come Porsche, Audi, Volkswagen e Skoda. L’ azienda decide di pubblicizzare i propri prodotti con un’ inserzione su Facebook, un’ ovvietà nel mercato odierno. Il post però viene censurato dal solerte Algoritmo, la versione postmoderna del Soviet. Motivo, effettivamente imperdonabile al tempo della pulizia etica delle parole: la famiglia, e conseguentemente la ditta, si chiamano “Negro”. Ma Zuckerberg e i suoi psicopoliziotti virtuali sono gente di mondo, agitano il manganello ma pur sempre dalla Silicon Valley, è loro abitudine darti una soluzione per rimediare alla colpa di aver pensato qualcosa indipendentemente dai loro pensieri. Nel caso, eccola: «Rimuovere le volgarità dall’ inserzione».

Ovvero: la gens Negro, proprietaria della concessionaria Negro, dovrebbe rimuovere il proprio cognome dal post che vuole sponsorizzare l’ azienda. Un groviglio identitario e commerciale che avrebbe ispirato una pièce di Pirandello, alla fine del quale non rimane più nulla a cui far pubblicità, ovviamente. Qualcosa come: «Non fatevi sfuggire le irripetibili offerti natalizie nel nostro punto vendita Di Colore!». Oppure: «Venite a visionare gli ultimi, imperdibili modelli alla concessionaria Diversamente Pigmentato!».

Sembra di cazzeggiare, ma preso alla lettera questo è il senso della mannaia di Facebook: la tua inserzione viola i nostri standard, che tra le altre cose non consentono offese in base alla «razza» (scrivono proprio così i controllori, che evidentemente ogni tanto dimenticano di controllare se stessi). L’ unico modo per essere riammesso nel consesso civile del social network è rimuovere lo scandalo, negare di chiamarsi “Negro”, cancellare la propria identità per tornare ad averne una.

Sarebbe un dilemma shakespeariano senza uscita, «essere Negro o non essere?», se non facesse ridere sguaiatamente. Non c’ è niente di più ridicolo dell’ ideologia trapiantata a forza nella vita quotidiana, e il Politicamente Corretto è l’ unica ideologia sopravvissuta alla crisi delle medesime.

Per restare a Treviso, recentemente Facebook aveva censurato la cinquecentesca Fontana delle Tette, dopo che era apparsa sulla pagina promozionale di una nota gioielleria del centro. Più o meno una porcata sessista, per i canoni del buonismo liberal-chic (di “radical” non c’ è più niente da un pezzo).

Sempre in Veneto: a Vicenza, durante le elezioni comunali, il social aveva oscurato un candidato di Forza Italia. Aveva il torto di chiamarsi Michele Dalla Negra (qui peraltro potenzialmente si univano razzismo e sessismo, ce n’ era abbastanza per bandirlo a vita). Notevoli anche i casi d’ involontaria censura artistica, che hanno visto Facebook dare il proprio diniego alle terga del David di Michelangelo e alla vagina de “L’ origine du monde” di Courbet.

È la «cultura del piagnisteo», come la battezzò nel saggio omonimo un grande distruttore del politicamente corretto come Robert Hughes: la lagna sulla violazione formale di quelli che per la cupola progressista sono i codici perbene, indipendentemente dalla qualità dei contenuti. Chi dice “Negro” è razzista, è lo stesso suono bisillabico che è maledetto, indipendentemente dal significato. Così sta tramontando l’ Occidente, sta finendo in farsa e con l’ orchestra di intellettuali, opinionisti, fondatori di “reti sociali” che suona davanti all’ iceberg della Dittatura Politically Correct, senza bisogno di nessuna tragedia, tra una tartina e un post. Rigorosamente corrispondente agli Standard della Comunità.