Islam. Terrorismo islamico. Violenza islamica. Leggete bene queste parole e poi cancellatele. Perché non si possono dire. La stampa mainstream, i giornaloni che fanno da sentinelle al politicamente corretto, le hanno messe al bando. Repubblica e Corriere per primi. Lo abbiamo visto sfogliando i quotidiani di ieri, ma non è una novità. È un tic che compare ogni volta che qualche pazzo terrorista uccide gli europei in nome di Allah.
Il terrorista, per lorsignori, non è mai islamico. Nemmeno se urla «Allah Akbar» o si fa esplodere con una copia del Corano tra le mani. È semplicemente un terrorista. Vietato aggettivarlo, non sia mai che si urti la suscettibilità di qualcuno. La parola d’ordine è omettere. Alternativamente ora va molto di moda dire che si tratta di un «radicalizzato». Che non vuol dire niente. Radicalizzato in cosa? Perché? Secondo il dizionario Sabatini Coletti il termine vuol dire questo: «Detto di persona, assumere posizioni estreme; detto della lotta politica, di una situazione ecc. diventare più tesa, più aspra». Eh beh, che uno che si mette a sparare in mezzo a un mercatino sia un po’ fuori di testa e abbia fatto una scelta «radicale» è abbastanza scontato. Ma – e questo è il problema – non si può dire il movente, specificare la matrice, mettere in chiaro l’ideologia che ha portato a compiere quell’atto.
Alle dieci di martedì sera era già chiaro a tutti che l’attentatore fosse islamico, eppure le parole jihad e islam sono solo nascoste in fondo a qualche pezzo, minimizzate in un sommario, lasciate appese alla sfumatura della possibilità e assolutamente evitate in ogni titolo. È una forma di autocensura.
Prima che i terroristi islamici ci chiudano la bocca, c’è chi anticipatamente ha già smesso di parlare. Di puntare il dito. Di raccontare le cose. Vogliono impedirci di scrivere chi ha ucciso tre persone e mandato in coma, tra gli altri, un nostro ragazzo, non hanno il coraggio di dire nome e cognome dell’assassino: il fondamentalismo islamico.