Circa la metà dei migranti con Hiv parte dal proprio Paese dopo aver già contratto il virus e circa il 50% si infetta durante il viaggio o nel Paese europeo che li ospita: il tasso di infezione va dal 32% al 64% nel Paese di approdo. E’ uno dei dati che emerge dallo studio aMase (advancing Migrant Access to health Services in Europe), condotto all’interno dell’EuroCoord per esplorare le condizioni del migrante Hiv-positivo nel Vecchio Continente. Il lavoro si basa su due studi paralleli: uno studio clinico, condotto in 57 strutture per il trattamento dell’Hiv di 9 paesi europei, e uno studio di community che ha visto il coinvolgimento di associazioni di lotta all’Aids e di supporto ai migranti.
Il quadro sulle infezioni post migrazione è stato tracciato dalle informazioni raccolte nell’ambito dello studio clinico tra luglio 2013 e luglio 2015 su oltre 2.200 migranti con diagnosi di infezione da Hiv da almeno 5 anni, residenti da almeno 6 mesi nel paese di accoglienza e seguiti nei centri clinici di Belgio, Germania, Grecia, Italia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Spagna e Svezia.
“Questi dati sono molto forti – afferma Tullio Prestileo dell’ospedale Civico-Benfratelli di Palermo – specialmente se collegati a un altro dato di prossima pubblicazione che mostra come la permanenza in Libia aumenti di almeno 4 volte il rischio di infezione da Hiv in questa popolazione, soprattutto in quella femminile”.
Se la ricerca scientifica ha raggiunto traguardi significativi, per gli esperti che di recente hanno fatto il punto a Genova, in occasione del 31esimo Convegno nazionale di Anlaids e ora si avviano a celebrare la Giornata mondiale contro l’Aids in programma l’1 dicembre, manca il tassello sociale. Serve, sottolineano, maggiore informazione e consapevolezza e fra le categorie ritenute più vulnerabili ci sono appunto i migranti.
L’incidenza di nuove diagnosi di infezione da Hiv, corretta per età e genere, pur se diminuita negli anni, è circa 4 volte più alta tra gli stranieri rispetto agli italiani; oltre il 60% acquisisce l’infezione con rapporti eterosessuali e di questi due terzi sono donne, viene ricordato in una nota.
“I migranti più di altri hanno bisogno di attenzione – sostiene Prestileo – La vulnerabilità ha diverse cause: anzitutto, nasce dalle condizioni di base in Africa e viene fortemente implementata dal percorso migratorio; successivamente, il migrante patisce la permanenza in Libia; infine, arrivati in Italia, spesso vengono meno quelle che l’Oms definisce ‘determinanti di salute’ e di conseguenza la probabilità di ammalarsi aumenta in maniera proporzionale a questa perdita. In breve, le precarie condizioni di vita provocano un maggior rischio di ammalarsi”.