Di Antonio Amorosi
Chiunque arrivi al governo cerca di realizzare le promesse elettorali e per farlo ha bisogno di risorse economiche, sempre poche in questa fase storica. Nella stessa condizione si trova anche il governo giallo-verde, Conte-Di Maio-Salvini.
Ma c’è un buco nero in cui si possono trovare miliardi, in un mondo protetto dalla politica: le cooperative o finte cooperative. Con la scusa di svolgere attività mutualistiche non pagano le tasse acquistando un ingiusto vantaggio sulle condizioni di lavoro rispetto alle altre aziende e quindi sul mercato.
Per parlare di rilancio dell’economia, di equità nel trattamento dei cittadini, tra chi paga le tasse, anche troppe e si suicida perché non ci riesce più, e chi non le paga “per legge”come le cooperative, occorre seriamente affrontare questo mondo in cui vi è un fiume di denaro in un mare di ingiustizie sociali.
Le cooperative italiane producono un fatturato dichiarato superiore ai 151 miliardi di euro annui. Controllano (parliamo delle coop rosse, i colossi della Grande distribuzione organizzata, il primo player italiano nella classifica mondiale dei supermercati) la seconda assicurazione italiana, Unipol. Il solo fatturato di 151 miliardi di euro è simile al Pil di interi Stati europei, più grande del Pil dell’Ungheria o di Slovenia, Croazia e Bulgaria messi insieme. In aggiunta le banche di credito cooperativo raccolgono da sole 160 miliardi di euro.
Un mondo in cui non si comprende dove inizi l’economia e dove finisca la politica. Viste le migliaia di porte girevoli di politici che diventano cooperatori o cooperatori che diventano politici nessuno ha mai voluto riformare questo sistema. Un mondo chiuso, coeso, garantito e che ha sempre potuto agire indisturbato. Le cooperative sono un insieme di contraddizioni che passano inosservate: pagano pochissime tasse o non ne pagano affatto, si controllano da sole, giocano in Borsa, raccolgono il denaro a vista anche se non potrebbero farlo (per legge è permesso solo alle banche), possono pagare i lavoratori cifre da fame o addirittura “farli pagare” per lavorare (per diventare socio della cooperativa ed avere il lavoro devi versare delle quote associative) ed è tutto in regola.
Sapete quante tasse pagava la cooperativa sociale, da 60 milioni di fatturato, dell’ex detenuto Salvatore Buzzi dell’inchiesta Mafia Capitale? Quello che diceva che con gli immigrati si guadagnava più che dalla droga. Zero.
E queste perché la sua coop non faceva impresa per “fare soldi” ma svolgeva un’attività mutualistica tra soci. Le coop, sulla carta, non svolgono attività speculative. A guardarle come sono oggi, i padri fondatori si rivolterebbero nella tomba, quelli che nell’800-‘900 le hanno create per dare un aiuto, un assistenza medica o attrezzi da lavoro a braccianti, fabbri o muratori che morivano di fame e fatica. Oggi vale la regola che se le attività o i ricavi o le vendite della cooperativa sono fatte prevalentemente da soci (per un monte superiore al 50% delle attività) le tasse si possono anche “volatilizzare”.
A fine anno non pagano le tasse sull’utile netto come tutti noi mortali. Da quel 100% di utile viene sottratto il 30 per cento, che finisce in una riserva indivisibile e diventa capitale dell’azienda, poi un altro 3% destinato a fondi mutualistici che la costellazione coop utilizza per investimenti. Le tasse da pagare però non saranno calcolate sull’intera cifra rimanente, cioè il 67%, ma su una percentuale ancora inferiore, a seconda del tipo di cooperativa: quelle di consumo (i grandi supermercati) pagano le tasse solo sul 65% dell’utile netto, le coop di lavoro (edili, di costruzione, di servizi) solo sul 40% dell’utile, quelle agricole solo sul 20% e le coop sociali, tipo quella di Buzzi, pagano zero. Le stesse coop sociali che si sono tuffate a pesce nel business dell’immigrazione, passando da fatturati di poche migliaia di euro a milioni (per la tassazione vedi anche la tabella che il sito fiscoetasse.com ha dedicato all’argomento).
Tutte le altre imprese come possono competere in un sistema del genere? Costrette a versare allo Stato anche il 75% dei loro utili. Dov’è il libero mercato? Un’equa concorrenza? La libera formazione dei prezzi? Con queste condizioni è ovvio che le cooperative fagocitino tutto e vincano ogni tipo di appalto, esercitando una concorrenza sleale nei confronti di chiunque e distruggendo anche il lavoro altrui. E chi rimane è davvero un mostro di bravura.
In più raccolgono denaro dai soci come fossero una banca, per un ammontare complessivo annuo che va dai 10,8 a i 12 miliardi di euro, il famoso prestito sociale. La prima voce che sparisce in caso di fallimento, come ci raccontano numerose inchieste giudiziarie, è la perdita dei risparmi dei soci che pensano invece di essere garantiti più dei correntisti delle banche perché le cooperative propagandano il fine etico del mutualismo. Parliamo di denaro raccolto a vista, libretti che chiunque può aprire. Basta andare in un qualsiasi supermercato dell’arcipelago delle coop rosse per vederlo. Attività, come scrive Banca d’Italia, consentita solo alle banche, date le garanzie che forniscono. Eppure le coop, anche se non potrebbero, lo fanno ugualmente. Capitali poi che vengono investiti in Borsa come da anni spiegano le ricerche di R&S Mediobanca. I soldi del mutualismo fruttano di più con la speculazione finanziaria.
In più le coop si controllano da sole. Pagano quote di iscrizione ad una centrale cooperativa (Legacoop, Confcooperative, ecc…), come potrebbe fare un iscritto ad un partito, e queste poi fanno politica, esercitano un controllo su di loro e verificano il profilo mutualistico. Il Mise, ministero dello sviluppo economico, può svolgere controlli in casi straordinari e su richiesta dei soci che si dovrebbero esporre contro i vertici. Buonanotte! Attività che negli anni è apparsa addirittura inesistente per mancanza di fondi e di volontà, se non addirittura ridicola visto che veniva svolta nel tempo libero dagli ispettori. Le comiche.
E non è finita. Esiste anche un sottomondo delle stesse cooperative fatto di lavoratori che associati forniscono le merci alla grande distribuzione o i servizi nei grandi appalti.
Vista l’enormità delle storture economico-fiscali appena raccontate, le condizioni disumane e le paghe da fame, a 2-3 euro l’ora, di queste migliaia di lavoratori sarebbero un fatto accessorio se non avessero effetti schiavistici. Perché nei sotterranei dei miliardi delle coop c’è una moltitudine di persone sottopagate di ogni genere: facchini, trasportatori, barellieri, operai, muratori, impiegati, macellai, braccianti, lavoratori della conoscenza, donne delle pulizie. Dal nord al sud entrano ed escono da altre cooperative che cambiano identità ad ogni alito di vento grazie a dei prestanome ed evadono il fisco come consuetudine. Un contesto a cui ci siamo abituati. Ma girarsi dall’altra parte come fanno i tanti soloni di sinistra vuol dire essere complici. Così come hanno fatto finta per anni di non vedere la contraddizione dell’articolo 18: in un solo settore non è mai stato applicato. Indovinate quale? Quello delle cooperative.
Una seria riforma del sistema (risultano attive più di 78.000 cooperative), mai vista in 70 anni, potrebbe far recuperare entrate per miliardi di euro e imporre di pagare le tasse a chi per dimensioni e fatturati finge di essere una cooperativa quando invece è una s.p.a. o qualsiasi altro genere di società. Un processo, questo di riforma, che dovrebbe andare di pari passo con la valorizzazione delle piccole cooperative che davvero svolgono attività mutualistica tra soci e con la lotta alle condizioni di sfruttamento dei lavoratori. Il paradosso oggi è che proprio le cooperative, ideate per difenderli, sono diventate il modello dello sfruttamento legale dei lavoratori.