Umilmente. Al servizio di Cristo. Come Suo servo inutile. – Danilo Quinto – 18 marzo 2017
Lunedì 20 marzo, torno in Tribunale per una denuncia di diffamazione di cui sono stato oggetto da parte dei radicali. Nel mio primo libro Da servo di Pannella a figlio libero di Dio avevo scritto servo sciocco in corsivo. Quasi una metafora, come scrisse Gianluca Veneziani su L’Intraprendente di qualche mese fa (l’articolo lo troverete in calce), che è il solo ad essersene occupato.
La vicenda è ignota a molti, perché tanti hanno preferito non occuparsene, non scriverne e non divulgarla. Fumus persecutionis? Ma andiamo! Io non sono mica Minzolini, o Lotti. Avrei potuto diventare parlamentare, ma vi ho rinunciato per seguire Cristo. E non mi lamento. Di che cosa dovrei lamentarmi, d’altra parte? Di essere per un minimo accanto a Cristo e di partecipare alle Sue sofferenze?
Anni fa, quando Emma Bonino stava per diventare Presidente della Repubblica, Costanza Miriano scrisse sul suo blog che Cristo era morto in Croce anche per Emma Bonino, senza aggiungere che la grande italiana – come l’ha definita il papa e i cattolici che abortiscono sono di certo d’accordo con lui – non si salverà mai se non si pentirà pubblicamente di quello che ha realizzato con la sua ideologia. Il buon ladrone si salva solo perchè si pente dei suoi peccati.
Lo scritto della Miriano mi colpì molto allora. Povero ingenuo che sono. Fu un esempio di quel cosiddetto mondo cattolico che ho conosciuto negli anni seguenti. Quello che edulcora e annacqua tutto, pronto a fare compromessi e a coltivare il male minore. Quello di Eugenio Roccella – ad esempio – che insieme a decine e decine di parlamentari cattolici firma appelli a favore dei 10 milioni di euro che lo Stato elargisce ogni anno a Radio Radicale e mi dice «Me l’ha chiesto un amico al quale non potevo dire di no». Quello di Gaetano Quagliariello, che in occasione del ricordo di Marco Pannella al Senato, afferma: «Oggi di luoghi di formazione, in fondo gratuiti e generosi, come quello che il Partito Radicale di Pannella ha incarnato, non ne esistono più. E questa è una perdita secca che condiziona la qualità della classe politica e quindi la ricchezza stessa della nazione». Quello di Massimo Gandolfini, che il 20 maggio scorso, così diceva di Pannella, a Radio Radicale: «Ho un ricordo sul piano umano molto buono e molto bello». Quello di Mario Adinolfi, che nel corso dell’Assemblea del Popolo della Famiglia, che si è tenuta a Roma nel gennaio scorso, ringraziava Radio Radicale della registrazione che effettuava.
Non cerco solidarietà da questi personaggi e da molti altri simili a loro. Con i loro comportamenti, sono complici dell’ideologia che proclamano di combattere. Cerco di fare il mio dovere. Umilmente. Nelle cose che dico, in quelle che scrivo, in quelle che Dio ritiene di farmi affrontare. E se lo ritiene Dio non posso che abbandonarmi alla Sua volontà. Da Suo servo inutile.
A questo proposito, ho sempre in mente quello che insegnava Don Divo Barsotti nelle Meditazioni sulle Lettere Pastorali: «San Paolo raccomanda a Timoteo di non invitare alcuno a insegnare dottrine diverse. Vi sono delle persone che Paolo teme possano insegnare delle dottrine che non sono precisamente delle dottrine cristiane. Una delle preoccupazioni fondamentali dell’apostolo è per l’integrità della fede. La Chiesa cristiana ha già un suo corpo di dottrina ben definito, ha come un deposito che si deve conservare con cura gelosa. E’ l’impegno dei discepoli ai quali Paolo si rivolge. Tale è la preoccupazione di Paolo di salvaguardare la fede, che può anche lasciare Timoteo ad Efeso e andare solo, lontano da lui. Paolo ama Timoteo, ma il suo affetto per lui, il discepolo prediletto, non può superare il suo amore per Cristo. Egli vive per il servizio che gli è stato chiesto da Cristo».
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Se dai del «servo sciocco» a qualcuno, ora finisci a processo
di Gianluca Veneziani (”L’Intraprendente”, 1 ottobre 2016)
Strano Paese davvero, l’Italia. Un Paese in cui si può tranquillamente umiliare qualcuno pubblicamente, magari postando video hard privati e offendendo la vittima sui social a suon di epiteti irripetibili senza pagarne le conseguenze, e non si può invece in un libro esprimere un giudizio, un’opinione peraltro pacata e non aggressiva, verso un gruppo di persone, senza passare sotto la gogna della giustizia, col cappio al collo dell’accusa di diffamazione.
In questo tritacarne giudiziario è finito suo malgrado il giornalista ed ex tesoriere del Partito Radicale Danilo Quinto, che verrà processato per diffamazione per aver scritto in un suo libro pubblicato quattro anni fa, Da servo di Pannella a figlio libero di Dio (Fede & Cultura), che il gruppo dirigente radicale di cui aveva fatto parte era «acefalo», e che un membro di quel gruppo dirigente veniva definito «servo sciocco». Entrambe le espressioni erano peraltro scritte in corsivo, quasi a indicare la loro valenza metaforica. Ma ciò che più colpisce è che non si tratta certo di insulti ingiuriosi, al più di pareri che attengono la libertà di opinione del singolo e non possono essere sottoposti a censura né tanto meno a condanna. Se è per questo, lo stesso Quinto, sin dal titolo del libro, si definisce «servo». Dovrebbe allora scattare per questo un processo per auto-diffamazione?
Suvvia, siamo seri. Quante volte su questo giornale abbiamo definito il premier Renzi «incapace» e «inadeguato», quante volte abbiamo chiamato la Boldrini «nemica delle donne», quante volte abbiamo detto di Papa Francesco che sta rottamando il cristianesimo? Dovremmo finire allora tutti a processo per questo? Dovremmo allora incorrere tutti nella scure della giustizia illiberale e censoria?
In ballo, in questa storia, non c’è solo la vicenda personale di un uomo e la sue persecuzione giudiziaria. Qui in ballo c’è la sacrosanta libertà di un giornalista di poter esprimere la propria opinione a proposito di chicchessia su un quotidiano o su un libro, di poter dare dell’inetto o del sottomesso a chi vuole senza rischiare di perdere la propria libertà; e c’è l’invadenza di un potere, come quello giudiziario, che pretende di processarci e condannarci non solo per quello che facciamo (se lo facciamo) ma anche per quello che diciamo, a prescindere che ciò sia passibile o meno di nuocere all’altrui reputazione. È la stessa battaglia, in fin dei conti, per cui ci parve doveroso difendere il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti da quell’assurdo processo che rischiava di portarlo in carcere per omesso controllo su un articolo scritto da una firma del suo quotidiano. È lo stesso spauracchio che torna ogni volta che un giornalista, per aver fatto semplicemente il suo mestiere, rischia di finire in carcere, l’esercizio della sua professione di diventare ragione della sua condanna, e uno dei fondamenti dello Stato di diritto in cui viviamo di essere abolito e reinterpretato a uso e consumo dei giudici.
È una vergogna, diciamocelo, per la quale occorrerebbe portare avanti una campagna di opinione e una battaglia civile senza titubanze di sorta. Una battaglia che prescinde da chi sono i contendenti, visto che, come racconta Danilo Quinto in un articolo pubblicato su Radio Spada, «non è il primo processo che subisco per una denuncia dei radicali. Ne fecero un’altra, subito dopo l’apertura della causa di lavoro nei loro confronti – che poi naturalmente persi, senza vedermi riconosciuti i miei diritti. In quell’occasione, fui condannato a 10 mesi, con pena sospesa e non menzione, per appropriazione indebita. L’accusa era quella di aver sottratto le somme dei miei stipendi, sulle quali ho pagato le tasse, rispetto alle quali chi le ha erogate non aveva mai fatto nessun rilievo negli anni in cui ero Tesoriere». Ed è una battaglia che prescinde anche da chi ne è vittima, ossia un uomo che, per aver esercitato la sua libertà di opinione, già in passato ha dovuto rinunciare a una collaborazione con un organo di stampa sostenuto dalla Cei.
Ma è una battaglia che ci riguarda tutti, come categoria di giornalisti, e più in generale, se permettete, come liberi cittadini di uno Stato libero. Qui ne va della nostra libertà di parola e di giudizio, lettori. Qui ne va del nostro diritto di dare a qualcuno dell’ “acefalo”, del “servo” e perfino dello “sciocco”, come e quanto ci pare. Qui ne va del nostro diritto di non essere succubi dello strapotere dei magistrati. E adesso processateci tutti.
HO LETTO TUTTO . NON SONO ALL’ ALTEZZA. . PER ME E’ UN “ROMPICAPO” , COME UNO DEI SOLITI GIOCHI CINESI.!