Il ricordo delle Foibe, le storie di tre esuli siciliani

«Per 50 anni non ho saputo la fine di mio padre»

Simona Arena per meridionews.it

Bruna Fiore aveva tre anni quando i soldati di Tito uccisero i suoi genitori e alcuni suoi fratelli. Giuseppe Mancuso è scappato da Fiume dopo essere stato in un campo di prigionia. Maria Cacciola ha fondato un’associazione per cercare i familiari delle vittime: «Volevano cancellare la presenza italiana in quelle terre»

La loro unica colpa era di essere italiani. E L’Italia li ha dimenticati per tanto tempo. Sono gli esuli di Istria, Fiume e Pola. Dal 2005 il 10 febbraio è dedicato alla commemorazione delle foibe e del successivo esodo forzato della popolazione italiana. Tutto cominciò l’8 settembre 1943. In Istria e in Dalmazia i partigiani jugoslavi torturarono e gettarono nelle foibe (le fenditure carsiche usate come discariche) circa un migliaio di persone. Erano fascisti (o presunti tali) e oppositori politici, potenziali pericoli per il futuro Stato jugoslavo comunista. Nella primavera del 1945 l’esercito jugoslavo occupò Trieste e l’Istria, cominciò così l’esodo di migliaia di italiani. Altri furono uccisi dai partigiani di Tito, gettati nelle foibe o deportati nei campi sloveni e croati.

Bruna Fiore è una di questi esuli. È cresciuta a Messina dove si è anche laureata. La sua vita viene stravolta l’8 settembre 1943 quando, insieme a sua madre e i suoi sei fratelli, deve lasciare Pola. «Ero piccola, avevo appena tre anni, ma ricordo che mio fratello Lorenzo, che aveva meno di 20 anni, era andato a lavorare. Ci raccontarono che si trovava in un bar e fu preso dai soldati di Tito nel marzo del 1943. Scomparve come già era accaduto a mio padre, sotto Natale. Sono sicura del periodo perché mi ricordo che mia madre, tornando a casa, si arrabbiò con mia sorella che aveva fatto l’albero e gettò tutto in aria. Per la disperazione quando capì che anche mio fratello era stato catturato dai soldati di Tito andò a cercalo. Ma non tornò mai più. Anche lei fu gettata nelle foibe, le strinsero i polsi e le caviglie con il filo spinato, quindi venne legata con gli altri prigionieri in fila sul ciglio di una foiba. Uno dei soldati sparava al primo della fila, facendo cadere dentro tutti gli altri. Stessa cosa successe a mia nonna. Era conosciuta e si era prodigata per ritrovare mia madre e mio fratello, ma finì anche lei infoibata. Di mio fratello Lorenzo, invece, non ho certezza, anche se un mio zio che anni dopo venne a Messina, mi disse che poteva indicarmi il posto dove era stato gettato». Bruna, a soli tre anni, fugge a bordo di un carro insieme ai fratelli: due si rifugiano in Brasile, due in Australia e la maggiore in Germania. Solo Bruna resta in Italia e viene adottata da una coppia di messinesi.

Giuseppe Mancuso ha 85 anni ed è un esule di Fiume. Nel 1947 fa esperienza di un campo di prigionia. «Stavo uscendo da scuola e aspettavo per prendere il tram e tornare a casa. Quando all’improvviso arrivò un camion con un tendone, i poliziotti slavi ci buttarono dentro. Attraversammo il fiume e ci portarono in un campo dove dovevamo lavorare sette, otto ore. Dovevamo pulire i boschi per aiutare i titini a passare. Dopo un paio di giorni, al campo di prigionia arrivò la sorella di mia madre, che era del ’26, più grande di me di soli quattro anni. Lei doveva lavare i piatti e fare le faccende». Mentre i due si trovano al campo, Fiume, già occupata da due anni dalla Jugoslavia, viene formalmente annessa allo Stato slavo e Tito lascia ai prigionieri e agli altri abitanti la libertà di decidere se restare in Jugoslavia o andarsene. Giuseppe Mancuso raggiunge la madre e il fratello a Torino in una delle grandi caserme. «Siamo stati un anno lì. Dormivamo in piccole stanze dove gli spazi erano divisi dalle lenzuola. Poi siamo stati a Roma, a Cinecittà, nel frattempo è rientrato mio padre dalla guerra. E la Marina lo ha mandato alla base navale di Messina, dove ci siamo trasferiti».

C’è poi chi infine come Maria Cacciola, esule di Pola, è responsabile da alcuni anni dell’associazione congiunti e deportati in Jugoslavia. «Sto cercando i congiunti messinesi dei trucidati per far prendere loro la medaglia, ma molti non hanno voluto saperne. Abbiamo realizzato una mostra itinerante che parla delle Foibe e che adesso si trova ad Acireale, al liceo scientifico Archimede». Cacciola spiega l’importanza di ricordare «quel mondo di odio e di furia sanguinaria che aveva come obiettivo cancellare la presenza italiana in quelle terre. Una vera e propria pulizia etnica. Per oltre 50 anni non ho saputo che fine abbia fatto mio padre. È partito nel maggio del 1945 a guerra finita e non è più tornato». Fu catturato dai militari titini mentre era al seguito del maresciallo palermitano Alfano. «L’ho scoperto solo dopo che è stata istituita la giornata del ricordo del 10 febbraio – continua la donna -. Noi scappammo da Pola perché il padrone di casa ci disse che era meglio rientrare in Sicilia. Su un carro arrivammo a Trieste e poi in treno in Sicilia».