Imola – Nel 2001 la medesima parte politica che oggi promuove la riforma approvò la modifica del Titolo V della Costituzione a favore del decentramento e della cooperazione Stato-Regioni anche nella tutela della salute, con la stessa spiegazione per cui oggi sostiene l’esatto contrario: far funzionare meglio il sistema. La vicinanza con chi deve decidere e amministrare, si affermava allora, favorisce la capacità dei cittadini di controllare la qualità dei servizi e la loro rispondenza alle specificità e ai bisogni dei territori. Oggi, all’opposto, si sostiene che il buon funzionamento del sistema si otterrebbe ritornando a un’impostazione verticistica, in buona sostanza rimettendolo nelle mani dei ministeri e delle burocrazie statali.
Ad oggi Stato e Regioni collaborano alla legislazione sulla tutela della salute, con lo Stato che determina i principi fondamentali e i livelli essenziali delle prestazioni da garantirsi a tutti i cittadini e le Regioni che ne regolamentano l’attuazione locale nel rispetto dei principi stabiliti a livello nazionale. E’ quella che tecnicamente si chiama legislazione “concorrente”, che sarà del tutto abolita se passerà la modifica costituzionale: gli spazi di autonomia e di flessibilità delle Regioni nella tutela della salute saranno drasticamente ridotti e lo Stato potrà esautorarle su pressoché ogni decisione. Nel nuovo testo costituzionale, infatti, lo Stato si riserva la “clausola di supremazia” in base alla quale potrà scavalcare le residue competenze regionali “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale”. Nella pratica potrà, ad esempio, imporre lo stesso modello di sanità a tutte le Regioni, non importa se virtuose o in disavanzo, decidere sull’apertura e chiusura degli ospedali o intervenire nell’organizzazione dei servizi di assistenza territoriale.
La principale giustificazione di chi propone la riforma è che il decentramento ha comportato una disomogeneità tra Regione e Regione. Alcune Regioni hanno, infatti, garantito a loro spese le prestazioni innovative non incluse dallo Stato nei livelli essenziali di assistenza, hanno ridotto la spesa farmaceutica promuovendo i medicinali generici, hanno moderato i costi centralizzando gli acquisti; altre sono state meno capaci di razionalizzare la gestione delle risorse e qualificare i servizi aumentando il divario con le realtà più virtuose.
Ma le maggiori responsabilità di questa disomogeneità sono imputabili proprio allo Stato e la Costituzione in vigore non c’entra nulla. Come evidenziato dalla prof.ssa Dirindin, senatrice del PD schierata per il no e grande esperta di sanità (insegna Economia sanitaria all’Università di Torino) lo Stato, anzitutto, “non è riuscito ad aggiornare i livelli essenziali di assistenza” da assicurarsi a tutti i cittadini, ancora fermi al 2001 nonostante si trattasse di una sua competenza esclusiva (è solo ora, dopo ben 15 anni, che siamo prossimi, si spera, ad un loro aggiornamento). In secondo luogo “non ha saputo dotarsi di un sistema di monitoraggio e controllo del rispetto dei diritti dei cittadini utile a segnalare con tempestività le carenze più gravi sui territori”. In terzo luogo “non è riuscito a dare attuazione all’articolo 120 della Costituzione vigente, il quale prevede che il Governo possa esercitare poteri sostitutivi nei confronti delle Regioni qualora lo richieda la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”.
E’ una facile profezia pronosticare che l’accentramento del potere previsto dalla riforma costituzionale, unito all’enfasi che tutti conosciamo sul contenimento della spesa sanitaria, tenderà ad allineare le regioni virtuose a quelle carenti e non viceversa, livellando verso il basso i servizi al cittadino.
Che il motivo dell’eliminazione delle disparità inter-regionali sia uno specchietto per le allodole per depotenziare il bene comune rappresentato da un’assistenza sanitaria universalistica e solidale è testimoniato anche dal fatto che la revisione costituzionale oggi proposta revocherà l’autonomia in campo sanitario delle sole Regioni ordinarie (come la nostra), mentre rimarranno immutati le prerogative e i privilegi delle Regioni a statuto speciale, allargando ancor di più il divario che separa le une dalle altre.
Questo cambiamento costituzionale vuole il ritorno al a un vetero-centralismo: è un regresso, non un progresso e solo un NO può aiutarci a difendere il bene comune della tutela della salute da chi persegue il pur necessario contenimento dei costi attraverso tagli indiscriminati anzichè una gestione razionale delle risorse.
Cittadinanza Attiva Imola