Il 25 novembre si celebra con stancante retorica la Giornata contro la violenza sulle donne. Anche quest’anno fra i discorsi del ministro Maria Elena Boschi, le firme di protocolli d’intesa con questa e quella associazione o branca dello Stato, gli assegni staccati per questa o quella iniziativa, si deve constatare che fra chi combatte la piaga della violenza ci sono i “combattenti” di serie A e quelli di serie B.
Come al solito nella retorica del politicamente corretto, attenta a non offendere qualche minoranza troppo sensibile alle critiche ai suoi usi e costumi, si riduce a un attacco contro l’uomo, colpevole a priori e pertanto meritevole d’essere svirilizzato. Così chi invece sta veramente con le mani nel fango, e combatte tutti i giorni facendo volontariato contro il jihadismo culturale resta nell’ombra.
I 20 milioni annunciati per la lotta alla violenza sulle donne arriveranno alle innumerevoli associazioni che stanno davvero sulla breccia. D’altronde, affermare che il problema è culturale e non “di genere” – come va di moda dire ora – relega automaticamente fuori dalla ristretta cerchia dei radical chic che fa magniloquenti discorsi, firma protocolli e si becca i finanziamenti.
Anche le onorificenze della presidenza della Repubblica vanno troppo spesso a chi fa più chiacchiere che fatti. Chi invece si occupa sul serio delle donne, tanto in Italia quanto all’estero (anche perché, poi, con l’immigrazione che non si riesce ad arrestare, i problemi dei paesi stranieri presto o tardi ce li ritroviamo qui in Italia…) nel salotto buono non entra. D’altronde, è più facile fare discorsi contro i singoli delinquenti, che per fortuna la giustizia ha già provveduto a sbattere in galera, piuttosto che contro orde intere di fanatici convinti che una qualche “legge di Dio” li autorizzi a picchiare, segregare, tenere in stato di ignoranza o perfino far di peggio alle donne.
È davvero il caso di dire che portare avanti queste reali battaglie non fa chic e per giunta impegna. Anzi, mette proprio a rischio la pelle… Al contrario, fare di tutta un’erba un fascio, scagliarsi indistintamente contro il “maschio” fa chic e non impegna. Basti vedere l’ultimo video – oltre il limite del ridicolo – che un gruppo di femministe di terza generazione americane sta facendo circolare su internet: si preoccupano della violenza domestica? Oppure della segregazione di mogli e figlie da parte di fanatici integralisti? O degli attacchi con l’acido? No. La loro preoccupazione è il “manspreading”, ovvero la maschilista (!!) abitudine degli uomini di sedere con le gambe aperte. Se avessero seguito le lezioni di anatomia umana saprebbero che noi femmine siamo differenti “là” dai maschietti… Ma probabilmente hanno preferito i seminari di “gender studies”.
E questi sono i risultati. Con tanto di razzismo culturale nei confronti di chi combatte lotte sostanziali, fatte davvero di corpi malmenati o sfregiati e di anime umiliate. Nel “salotto buono” queste perdigiorno arrivano facilmente. Sono probabilmente le stesse che sostengono l’introduzione in Costituzione delle “quote rosa”, una delle peggiori fra le riforme Renzi-Boschi a cui occorrerà gridare “NO!” il prossimo 4 dicembre. Le donne non hanno bisogno di “quote rosa” come panda in via d’estinzione. Né di battaglie idiote anti-maschio. Hanno bisogno di supporto reale nelle battaglie reali: per il diritto all’istruzione, per il diritto all’autodeterminazione, per essere liberate dalla paura. Purtroppo per fare questo occorre sporcarsi le mani. Avere il coraggio di dire che il problema è l’ignoranza, l’integralismo, il jihadismo culturale, non il “manspreading” o le “quote rosa”.
Souad Sbai
Souad Sbai partecipa oggi al Convegno per la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che si tiene in Senato.