Sono 69 i casi di abusi sessuali compiuti da soldati impegnati in missioni di pace, con un netto incremento rispetto ai 52 denunciati nel 2014. Superati anche i livelli del 2013, quando i casi erano stati 66. Lo riferisce il rapporto annuale dell’Onu.
Un terzo delle violenze compiute lo scorso anno ha riguardato minorenni. La maggior parte è stata compiuta in Repubblica Centrafricana (22), dove fra i provvedimenti presi c‘è stata anche la rimozione del capo della missione, e Repubblica democratica del Congo (16). I caschi blu coinvolti negli abusi sessuali provengono da 21 Paesi diversi. Per la prima volta ne è stata resa nota la nazionalità.
Sette dei denunciati provengono dalla Repubblica del Congo, quattro da Marocco e Sud Africa. A quota tre ci sono Camerun, Congo-Brazzaville, Ruanda e Tanzania. Due accusati provengono da Bénin, Burkina Faso, Burundi, Canada e Gabon. Un caso ciascuno ha riguardato Germania, Ghana, Madagascar, Moldavia, Niger, Nigeria, Senegal, Slovacchia e Togo.
Comprendendo anche il personale non utilizzato in operazioni di peacekeeping, i casi salgono a 99. Le missioni in corso sono 16, con un impiego complessivo di 100.000 uomini.
“Credo fermamente che chiunque presti servizio sotto la bandiera delle Nazioni Unite e approfitti di chi è vulnerabile compia un vero abominio. Non potremo mai, mai accettare che i protettori si trasformino in aguzzini” ha detto, nel presentare il rapporto, Atul Khare, sottosegretario delle Nazioni Unite per le operazioni di pace.
Gli Stati Uniti hanno proposto al consiglio di sicurezza dell’Onu una risoluzione che prevede il rimpatrio delle intere unità nelle quali ci siano accuse di abusi sessuali.
A causa del fatto che troppo spesso, in patria, gli autori dei crimini restano impuniti, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, chiede che vengano costituite corti marziali in loco per giudicare i casi. E di prevedere l’obbligatorietà del test del Dna.
Ha esortato, inoltre, gli Stati membri ad aggiornare le proprie leggi nazionali, per garantire che si applichino a crimini sessuali commessi dai propri cittadini nell’ambito di operazioni di peacekeeping.
Al 31 gennaio, solo 17 delle inchieste aperte nel 2015 è giunta a una conclusione, dando luogo a misure nei confronti degli accusati. Tendenzialmente inadeguate rispetto a quanto commesso: sei mesi di prigione per attività sessuale a pagamento con minorenni, 60 giorni per lo sfruttamento sessuale di una donna. E poi sanzioni amministrative e pensionamenti forzati.
Di Alfredo Ranavolo EURONEWS