«Qua no se pol viver!», del prof. Giovanni Stelli
(…) Agli inizi del maggio 1945 i reparti partigiani jugoslavi comunisti di Tito occuparono Trieste (che però dovettero abbandonare circa 40 giorni dopo), Fiume e quasi tutta l’Istria, mentre Lubiana e Zagabria, le capitali rispettivamente della Slovenia e della Croazia, erano ancora in mano tedesca. Lo scopo era realizzare un’annessione di fatto di questi territori contestati (mentre ovviamente nessuno poteva contestare l’appartenenza di Lubiana e Zagabria alla Jugoslavia).
L’occupazione si tradusse immediatamente in una durissima repressione contro ogni forma di dissenso e qui si inserisce la questione foibe.
Qui occorre precisare che il termine foibe ha assunto ormai, al di là del suo significato letterale che indica, come è noto, una depressione del terreno a forma di imbuto, tipica delle zone carsiche), una valenza simbolica ed è usato comunemente in senso generale per indicare le eliminazioni fisiche, i massacri e le persecuzioni avvenuti ai confini orientali nel periodo 1943-1945 (ma la data finale andrebbe spostata in avanti di qualche anno) ad opera dei partigiani titoisti jugoslavi.
Nella categoria degli “infoibati” vanno quindi incluse tutte le vittime del terrore, ossia, oltre agli infoibati veri e propri fatti precipitare nelle foibe carsiche e anche nelle numerose cave di bauxite sparse per tutta l’Istria, anche le numerose vittime annegate in mare, come a Zara, fucilate o uccise in vario modo, come i fiumani eliminati il 3-4 maggio 1945, tra cui l’antifascista Mario Blasich, strangolato nel suo letto, e il senatore Riccardo Gigante, ucciso insieme ad altri a Castua, i molti sacerdoti seviziati e infoibati, come don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, o scomparsi nel nulla, come don Francesco Bonifacio, parroco del paesino istriano Villa Gardossi, ecc. Qualche altro esempio: il 19 ottobre 1943, 19 persone vengono fatte uscire dal carcere di Albona, mitragliate e gettate in mare legate insieme con delle grosse pietre; il 20 maggio 1945, 161 deportati di Albona (civili e militari, uomini e donne) sono caricati, legati, sulla nave Lina Campanella che salta in aria per una mina nel canale d’Arsa; quelli che restano a galla sono mitragliati dai soldati di Tito che scortano il carico su un’altra motobarca.
Il nesso tra foibe ed esodo è quindi evidente ed è essenziale per capire la tragedia vissuta dalle popolazioni della Venezia Giulia: la repressione – che in Istria, a Trieste, nel Goriziano, a Fiume e a Zara, dal 1943 al 1948 e anni seguenti, colpisce soprattutto (ma non soltanto) la popolazione italiana – è la premessa dell’esodo del 90% della popolazione italiana, che ha avuto come conseguenza uno stravolgimento etnico di quelle terre e segna una cesura storica senza precedenti.
Posso citare un paio di testimonianze che riguardano la mia famiglia che è di Fiume: mio padre, Mario Stelli, fervente italiano e ufficiale decorato, dopo l’arrivo dell’esercito partigiano titoista in città, nonostante la sorpresa (i fiumani, per quanto possa sembrare incredibile, si aspettavano l’arrivo degli anglo-americani!) e il dolore, ha lasciato scritto in una sua memoria: «In quel momento non pensammo affatto che saremmo stati costretti ad andare via; cercammo anzi un conforto reciproco, ci riunimmo tra amici in ufficio, e dicemmo: pazienza, faremo gli italiani all’estero, rimarremmo insieme tra di noi. Non sospettavamo quello che stava succedendo nella notte del 3 maggio.
Il giorno dopo cominciarono a trapelare le tragiche notizie dell’eliminazione di Mario Blasich, Nevio Skull e altri autonomisti. Iniziò il periodo del terrore. La città fu addobbata con striscioni di viva Stalin, Tito è il pupillo di Stalin, ecc. Arresti e deportazioni si succedevano in continuazione. La gente che veniva arrestata scompariva…». Dopo un anno, nell’aprile del 1946, la mia famiglia esodò da Fiume. Passò un altro anno e anche mio nonno, autonomista fiumano e antifascista (nel 1922 gli squadristi l’avevano più volte cercato per somministrargli l’olio di ricino), fu costretto, ultrasessantenne, ad abbandonare Fiume, andando incontro alla disoccupazione a una vita grama, perché, come diceva nel suo dialetto: «Qua no se pol viver!» (qui non si può vivere).
È necessario aggiungere una precisazione storica e una considerazione più generale. Occorre distinguere due fasi degli infoibamenti. La prima fase va, grosso modo, dal 9 settembre al 13 ottobre 1943, ossia si colloca all’indomani dell’armistizio italiano durante il breve periodo di occupazione slava interrotto dalla controffensiva e dalla conseguente occupazione tedesca dell’ottobre, e interessò l’Istria, soprattutto centrale e meridionale. La seconda fase, più importante, si colloca nella tarda primavera del 1945, ossia dal 1° maggio 1945 per continuare fino a date diverse a seconda delle zone. Trieste e Gorizia furono particolarmente colpite, anche se in queste città e a Pola l’occupazione jugoslava durò “soltanto” quaranta giorni circa, poiché fu sostituita a giugno da un’amministrazione militare alleata. Negli anni successivi le sopraffazioni comunque assegnate alla Jugoslavia, e quindi in Istria, a Fiume e in Dalmazia.
Le due foibe più importanti sono quella di Basovizza e quella di Monrupino, entrambe nei pressi di Trieste. La prima era originariamente un pozzo di miniera che nel 1918 misurava 300 m di profondità; dopo i “quaranta giorni” dell’occupazione titoista fu verificato un innalzarsi del livello: vi furono estratte circa 600 salme, tra cui quelle di 23 soldati neozelandesi; poi si dovette interrompere l’opera di recupero e la voragine fu chiusa con una grande lastra. Nella foiba di Monrupino, profonda 126 m, si pensa che vi siano circa 2.000 infoibati. Le ricerche furono impossibili perché la foiba raccoglie le acque di un vasto impluvio che si disperde in vari canali sotterranei, per cui i cadaveri sono stati man mano trasportati in voragini ancora più profonde. Per parecchi mesi la foiba emanò il fetore della decomposizione nelle campagne circostanti.
Tra le altre foibe individuate, vanno ricordate quelle di Vines (vicino Albona), di Gallignana, di Lindaro, di Drenchia, dove finirono anche partigiani bianchi della Osoppo; di recente è stata scoperta una foiba a Costrena, nei pressi di Fiume. (…)
Agli italiani delle terre occupate dalla Jugoslavia e poi ad essa cedute col Trattato di pace del 10 febbraio 1947, fu data la possibilità di optare per l’Italia o per la Jugoslavia; gli optanti per l’Italia poterono espatriare col consenso delle autorità jugoslave. Molte domande di opzione furono accolte tardivamente dopo ripetute istanze, e questo spiega il protrarsi dell’esodo per parecchi anni. Altre infine furono respinte. L’atteggiamento delle autorità comuniste dell’epoca nei confronti dell’esodo (lo favorirono o cercarono invece di ostacolarlo?) non è stato ancora chiarito e attende uno studio approfondito.
Per quanto riguarda la condizione degli esuli arrivati in Italia, bisogna distinguere tra chi nelle località di provenienza aveva un lavoro nell’amministrazione pubblica o in aziende italiane, e chi invece era lavoratore autonomo o dipendente da aziende locali. I primi mantennero il posto di lavoro e, pur dovendo affrontare una serie di immaginabili gravi difficoltà, ebbero una sorte migliore degli altri, ossia della stragrande maggioranza, che trovò rifugio per vari anni nei “campi profughi” sparsi un po’ in tutta Italia; si consideri che gli operai costituivano il 60% dei profughi e gli impiegati il 23%, a dispetto della propaganda comunista che bollava gli esuli come “borghesi”. La vita di questi profughi fu veramente pesante soprattutto nei primi anni di un dopoguerra di per sé difficile per tutti gli italiani: lontani dalle loro terre, in cui sapevano, si badi, di non poter tornare più, lontani spesso da parenti e amici che non avevano ottenuto il permesso di raggiungerli, in precarie e anguste baracche di legno in cui si coabitava, privi di lavoro, accolti spesso con diffidenza se non addirittura con ostilità a causa di una propaganda che li dipingeva come “fascisti” o come strani individui che avevano “inspiegabilmente” rifiutato di vivere nel “paradiso socialista” e venivano a togliere il lavoro agli italiani… Fu una situazione terribile.
Già a partire dai primi anni cinquanta, però, le cose andarono migliorando: il popolo dell’esodo dette una grande prova di civiltà e di abnegazione, inserendosi progressivamente in modo stabile nella società italiana e superando la precarietà lavorativa dei primi anni. I campi profughi vennero man mano chiusi. Si tratta di una grande pagina di storia, ancora da studiare: nonostante le sofferenze, le violenze e i torti subiti, i profughi giuliano-dalmati si sono rapidamente e pienamente integrati nella società italiana, non si sono abbandonati al rancore e tanto meno alla violenza, ma hanno custodito con dignità le loro memorie e le loro tradizioni, e rivendicato in modo pacifico e democratico i loro diritti attraverso le loro associazioni, nonostante le censure e i prolungati silenzi, riuscendo infine ad ottenere dal Parlamento italiano l’istituzione di una Giornata del Ricordo. (…)
Vorrei ricordare il vergognoso comportamento della citta di Bologna verso i profughi fermi in Stazione di cui si dovrebbe parlare un po’ di più ed a cui si dovrebbero richiedere le scuse che non sarebbero mai tardive
Bisogna far conoscere i crimini compiuti dal macellaio Tito e magari introdurre una legge che vieti il negazionismo e la derisione delle vittime di questo eccidio, come avviene per l’ Olocausto.