“Andate avanti e tagliate internet, i nostri piccioni viaggiatori non si lamenteranno”. E’ l’ultimo post su Facebook di Ruqia Hassan, giornalista di Raqqa – la roccaforte dello Stato islamico in Siria – giustiziata dai jihadisti dell’Isis. Quel messaggio, ironico e addolorato, risale al ventuno luglio scorso. Poi l’arresto da parte delle milizie del Califfo e, oggi, la notizia dell’uccisione.
La famiglia di Ruqia, come riporta il Daily Mail, è stata informata solo tre giorni fa della sua esecuzione, giustificata con l’accusa di spionaggio. La sua morte è stata confermata al quotidiano britannico da un attivista del gruppo “Raqqa is Being Slaughtered Silently” (“Raqqa è massacrata nel silenzio“).
Scrivendo sotto lo pseudonimo di Nissan Ibrahim, Hassan aveva riferito dei bombardamenti aerei della coalizione internazionale sulla città siriana. Ruqia raccontava su internet la vita quotidiana degli abitanti di Raqqa, la città che nel 2013 era diventata una dei primi centri siriani liberati dal controllo del regime di Bashar al-Assad. Poi, sul finire dell’anno, arrivarono i tagliagole di Al Baghdadi, trasformandola nella loro capitale.
Da quel giorno lo Stato islamico ha imposto le sue regole: tasse ai commercianti locali in cambio di protezione, schiavitù sessuale e segregazione per le donne sciite e cristiane, insegnanti costretti a sostituire i programmi di insegnamento del Corano con i corsi di jihad. Giornalisti, attivisti e ribelli sono stati minacciati di torture e di morte se non avessero piegato la testa. Ruqia non l’ha piegata, e ha pagato con la vita.
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