Non c’era solo Maria Elena Boschi all’interno del consiglio dei ministri di Matteo Renzi ad essere legata a doppio filo a una delle banche coinvolte nel bail in. Lei era azionista della Banca popolare dell’Etruria e del Lazio di cui suo papà Pier Luigi era stato fino al gennaio scorso consigliere di amministrazione e per un anno anche vicepresidente. Una storia quasi parallela a quella di un altro ministro: Dario Franceschini, che guida i Beni culturali ed è stato fra i primi ad annunciare il salvataggio delle banche grazie al decreto legislativo sul bail in.
Nel suo caso la banca è un’altra delle quattro di cui hanno salvato il valore per la vendita nascondendo tutte le magagne del passato in una bad bank comune e impoverendo all’improvviso gli obbligazionisti subordinati: la Cassa di Risparmio di Ferrara. Anche qui fra gli azionisti storici c’era proprio Franceschini.
Piccole quote, che valevano poco più di quelle della Boschi (circa 2 mila euro) anche perchè erano state incrementate attraverso acquisti negli anni. Anche qui c’era una storia di famiglia legata a doppio filo con la banca della città natale. Il papà di Dario, l’avvocato Giorgio Franceschini, ex partigiano scomparso nel gennaio 2012, era stato a lungo consigliere di amministrazione della cassa e della fondazione bancaria che la possedeva.
Di più. Dal 1957 fino al giorno della morte era stato anche socio della Fondazione, strettamente legato a uno degli uomini simbolo della storia anche recente sia della fondazione che della cassa di risparmio, entrambe guidate a lungo: Alfredo Santini, nei cui confronti i commissari della Banca di Italia hanno avviato una azione di risarcimento attribuendogli responsabilità per danni complessivamente valutati di 177 milioni e 232 mila euro.
Certo, papà Franceschini non era al vertice della cassa ferrarese al momento dello scioglimento, e non aveva responsabilità amministrative a differenza di papà Boschi nel dissesto dell’istituto di credito.
Ma le due storie sono davvero parallele, e il miscuglio di interessi nel governo Renzi si amplia anche grazie alla vicenda Franceschini. Se ad Arezzo l’Etruria era considerata la banca dei Boschi, a Ferrara quella cassa era stata la banca dei Franceschini. Un legame addirittura secolare, perchè anche il nonno di Dario aveva avuto un ruolo di primo piano in quelle vicende. Si chiamava Luigi, e fu il commissario giudiziale nominato nel 1928 in seguito al dissesto di quella che veniva chiamata «la banca dei preti», il Piccolo Credito di Ferrara. La liquidò, e continuò ad essere uno dei massimi esperti ferraresi di procedure del credito. E alla fine della seconda guerra mondiale divenne per molti anni consigliere di amministrazione di Carife. Trasmettendo quella passione per la cassa prima al figlio Giorgio, e poi al nipote Dario. Anche l’attuale ministro del governo Renzi fu infatti socio -designato dal comune di Ferrara- della Fondazione bancaria che possedeva la Carife fra il 1992 e il 2001, lasciando da quel momento da solo il padre nell’assemblea dei soci.
Questo legame a doppio-triplo filo con la cassa ferrarese di Franceschini è emerso anche negli ultimi mesi, quando il ministro è stato il referente dei comitati piccoli azionisti della cassa. Non a caso il suo nome è risuonato più volte fra le pareti della sala in via della Fiera di Ferrara in cui si è svolta il 30 luglio scorso l’assemblea degli azionisti della cassa per approvare l’aumento di capitale da 300 milioni di euro con emissione di warrant per gli ex azionisti riservato al Fondo interbancario di Tutela dei depositi che avrebbe dovuto salvare la cassa di Ferrara.
C’era chi se la prendeva con il ministro Franceschini, come il piccolo azionista Franco Mingozzi, che lo accusava di essere stato troppo silente quando nel governo di Enrico Letta sedeva a fianco dell’ex direttore generale della Banca di Italia, Fabrizio Saccomanni, che aveva da poco commissariato quella cassa: «Come cittadino di Ferrara e come azionista Franceschini poteva spendere qualche parola per calmare lo spavento e lo sconcerto che abbiamo vissuto tutti». Ma le associazioni dei piccoli azionisti assicuravano di avere sentito il ministro, che aveva assicurato l’ok del governo al piano di salvataggio in corso.
Quell’assemblea del 30 luglio in effetti è uno dei principali gialli di questa bancopoli. Con soli sei voti contrari l’aumento di capitale fu in effetti approvato e quindi destinato al fondo interbancario. Fra gli atti depositati c’è anche una lettera datata 7 luglio e firmata dal Governatore della Banca di Italia, Ignazio Visco, con la quale si autorizzava «la convocazione dell’assemblea straordinaria degli azionisti e la proroga tecnica della procedura» di commissariamento.
Nella lettera si citava esplicitamente l’aumento di capitale riservato al fondo e perfino il nuovo prezzo di emissione delle nuove azioni: 0,2728 euro. Solo alla fine Visco precisava che «l’esecuzione delle delibere assembleari che saranno adottate sulla base del presente provvedimento è condizionata all’esito dell’istruttoria presso la Bce». Il presidente della Fondazione Carife, Riccardo Maiarelli, decise di votare sì a quell’aumento di capitale sia in base alla lettera di Visco sia in base a un via libera scritto ottenuto dal ministro dell’Economia, Pier Luigi Padoan, che aveva visto a Roma in un incontro favorito proprio da Franceschini.
C’era l’ok di Bankitalia, l’ok del governo, ma il piano di salvataggio non è andato in porto. Non si sa per colpa di chi: la Bce? L’Ue? L’unica certezza è che questo non risulta da nessun atto ufficiale scritto. Un finale che oggi rende furiosi i piccoli azionisti con Franceschini. Che però non si è sottratto alla rabbia. L’associazione Amici della Carife sostiene di avergli scritto il 22 novembre, giorno del decreto salva banche e che lui ha risposto. Con Franceschini «è poi seguito uno scambio di messaggi».
Di Franco Bechis per liberoquotidiano.it/