Anteprima del libro di Michele Silenzi
Testata: Il Foglio
Data: 31 ottobre 2015
Autore: Michele Silenzi
Titolo: «Yoni l’eroe e Benjamin il premier, due fratelli per Israele»
Qualche anno fa lessi un articolo che ricordava l’impresa di Entebbe del luglio 1976, quando un’unità scelta dell’esercito israeliano atterrò in piena notte nell’aeroporto della città ugandese per liberare più di cento ostaggi ebrei e israeliani tenuti lì da terroristi tedeschi e palestinesi dopo il dirottamento di un volo partito da Tel Aviv e diretto a Parigi. A fine agosto ho trascorso alcuni giorni in Israele per fare ricerca su un libro che ho curato per la casa editrice Liberilibri, “Le lettere di Jonathan Netanyahu”.
Ho avuto modo di conoscere e parlare con entrambi i suoi fratelli: Iddo, medico e autore teatrale, e Benjamin, il primo ministro, che ha avuto la cortesia di ricevermi nella sua residenza di Gerusalemme.
Il blitz di Entebbe, un successo memorabile nella storia delle operazioni di salvataggio, era stato comandato da un giovanissimo tenente colonnello israeliano, Yonatan (Yoni) Netanyahu, unico caduto israeliano di tutta l’operazione. In quell’articolo riportavano anche dei brani dalle lettere che dai diciassette ai trent’anni, ovvero fino a pochi giorni prima di morire, Yoni aveva inviato ai suoi cari.
Ne restai colpito per l’intensità, la durezza, la dolcezza e la profondità dell’analisi storico-politica. Ordinai il libro su Amazon (in quel momento ero a Londra e sembrava che nessuna libreria ne possedesse una copia né che fosse in grado di ordinarla).
Dalle lettere emergeva una sorta di romanzo epistolare di formazione di un giovane che, dopo essere stato plasmato dalla storia del proprio paese, l’avrebbe a sua volta plasmato con l’eccezionalità della sua impresa e del suo carattere.
Un percorso perfetto e brutale, mai dimenticato.
Pochi giorni fa, infatti, visitando il cimitero militare di Gerusalemme, appoggiato su un fianco del monte Hertzl, la tomba di Yoni, una tra le tantissime tutte identiche alle altre, si staccava soltanto per la quantità di sassolini depositati sopra di essa, a testimonianza della quantità di persone passate di lì a dare il loro rispettoso saluto a questo giovane eroe.
L’eroe, appunto. Terminato di leggere il libro fu quella la prima cosa a colpirmi. L’inequivocabilità di ciò che la sua figura rappresentava. Un eroe autentico, classico, epico. Un eroe di quelli che l’occidente, per anni, ha tentato di dimenticare, di deridere, di rimuovere attraverso l’oscenità brechtiana “beato il Paese che non ha bisogno di eroi” e sostituendo a questa epica dell’individuo eccezionale quella dell’“eroe normale”, che poi non si capisce bene cosa significhi. Infatti c’è solo un eroe possibile, quello dietro cui un intero popolo si raccoglie, quello da cui un intero popolo trae senso di coappartenenza, l’eroe al cui funerale ogni singola mano di un’intera nazione idealmente accompagna il corpo, quello attorno a cui si crea un rito sia collettivo che individuale di emulazione.
Per Israele, paese ancora umiliato dall’attacco arabo dello Yom Kippur e dalla quasi sconfitta che avrebbe significato annientamento, quell’impresa fu il momento decisivo da cui iniziare a rialzarsi. La sconfitta, per Israele, non ha mai avuto lo stesso significato che poteva avere per qualsiasi altro paese per cui una disfatta militare significa ridimensionamento dei confini o perdita di influenza. Per Israele la sconfitta ha sempre coinciso con l’annientamento, per questo è sempre stato costretto a vincere, e anche quando tutto sembrava perduto ha sempre trovato il coraggio disperato ma lucido per sopravvivere e andare avanti.
L’eroe dunque, e la sua formazione. Nella corrisponcenza c’è il dipanarsi di questo racconto epico. Le lettere iniziano nel 1963, quando Yoni era con la famiglia negli Stati Uniti, dove il padre Benzion, grande storico, direttore dell’Encyclopedia Judaica e in precedenza assistente per anni di Jabotinski, uno dei padri della rinnovata idea dello stato d’Israele, si trovava per fare ricerca. La prima lettera la scrive dai sobborghi di Filadelfia a un suo ex compagno di classe di Gerusalemme. E da qui, come in tutte le altre lettere del suo anno americano, si sente un costante desiderio di fare ritorno in patria. Non importa se la famiglia, con cui pure era legatissimo, si trovava lì con lui. Era alla sua terra che Yoni voleva costantemente ritornare. Ritornare per difenderne l’esistenza.
E questo accadrà l’anno successivo. Nell’estate del 1964 ritorna in Israele per iniziare il servizio militare. Sarà il momento che cambierà tutto. Dalle sue lettere non traspare mai uno spirito militarista, anzi, a volte si avverte il disagio per una vita che non sente interamente sua e, fino a pochi giorni prima della sua morte, fino alle sue ultime lettere, si troverà sempre il desiderio di questo giovanissimo colonnello, comandante di Sayeret Matkal, la più prestigiosa unità d’élite dell’esercito israeliano, di fare ritorno alla vita civile.
Perché questo è il punto. Yoni non era uno studente qualsiasi. Era stato ammesso ad Harvard e aveva ricevuto lettere d’invito da Yale e Princeton. Finito il servizio militare obbligatorio per ogni israeliano maggiorenne avrebbe potuto far ritorno ad Harvard, dove aveva iniziato gli studi di matematica e filosofia per poi abbandonarli perché l’impulso a tornare nel suo paese per difenderne l’esistenza stessa superava ogni altra aspirazione. Un giovane che poteva avere davanti a sé una carriera splendida negli Stati Uniti, sceglie di tornare in uno dei luoghi più violenti e pericolosi al mondo, sceglie di vivere la difficile e poco remunerativa vita dell’esercito, per la necessità di abbracciare ciò in cui crede. Sceglie, con tutta la forza e la radicalità che questa parola implica, la propria strada.
Quando, con Liberilibri, decidemmo di tradurre le lettere di Yoni in italiano, non ci stupì affatto che nessuno ci avesse pensato prima. L’atteggiamento dei paesi occidentali verso Israele è quello che si ha, quando va bene, verso un compagno di classe troppo agitato, uno che sembra non faccia altro che creare problemi. Altrimenti è un atteggiamento di disprezzo tout court, si guarda a Israele come a una forza di occupazione che piega sotto il suo giogo i palestinesi, o addirittura come il cancro originario che ha generato il radicalismo musulmano e la destabilizzazione del medio oriente di cui siamo testimoni ogni giorno.
Del resto, mi sembra chiaro che il disprezzo in cui la maggior parte degli europei tiene Israele sia in parte dovuto a una buona dose di odio verso noi stessi e verso i nostri valori fondativi che sembriamo aver rimosso e che invece rappresentano la spina dorsale su cui si regge lo stato ebraico. Parlo dell’orgoglio di esistere e dell’orgoglio per la nostra storia e la nostra identità, la volontà di vivere e di progredire, la capacità di resistere, con tutti i mezzi necessari, agli attacchi di chi vuole privarci della nostra libertà e della nostra cultura.
Israele, oltre ad avere tutti i canoni di un grande paese occidentale in termini di libertà e diritti, poggia solidamente su questi valori che l’Europa ha rimosso o tende a rimuovere perché troppo impegnativi, soffocandoli dentro la rete del politicamente corretto e del solito senso di colpa verso tutto ciò che non è occidente. La figura di Yoni e le sue scelte esemplificano perfettamente questi valori.
Una terra come l’Europa, in cui non solo i governi ma gli individui sembrano aver perso completamente di vista questi valori, appare sempre di più come un luogo privo di identità e di rispetto di sé. Appare come una terra perfetta per essere conquistata, perché svuotata di qualsiasi tipo di identità propria. La rinuncia alle scelte difficili, di cui è la politica a farsi carico, non può però certo essere imputata alla politica stessa.
Viviamo in un sistema rappresentativo, tutto ciò che viene fatto è lo specchio inevitabile delle scelte, o, per meglio dire, delle non-scelte dei singoli. Libertà e tolleranza, i valori essenziali e strutturali da cui derivano tutti gli altri, non vivono di vita propria. Sono strutture fragili e, come tali, vanno difese. Non può esistere la libertà a meno che non venga difesa, e quindi la domanda da porsi diventa molto semplice e radicalmente individuale: cosa sono disposto a fare per difendermi? Quando la risposta a questa domanda è generica o evasiva equivale a dire non sono disposto a fare niente.
E vedere altri, in questo caso Israele, che invece scelgono con drammatica determinazione, ci mette con le spalle al muro, misura tutta la distanza che c’è tra ciò che dovremmo fare e ciò che non vorremmo dover fare. A Gerusalemme, Iddo, il terzo dei fratelli Netanyahu, ha avuto la gentilezza di farmi da guida. In uno di questi pomeriggi, mentre stavamo finendo il pranzo, gli è arrivata una telefonata dall’ufficio del primo ministro: avevano trovato una mezz’ora per farci incontrare il capo del governo. Terminati i lunghi controlli all’ingresso della residenza ufficiale, siamo entrati nel patio della villa e abbiamo atteso il suo arrivo su uno dei divani sotto i portici. Dopo poco, da una delle porte-finestre che affacciano sul patio, è comparso Benjamin Netanyahu.
La cosa che più di ogni altra mi ha colpito è stata la drammaticità della sua figura, il peso che sembra portare addosso. E’ un uomo che, in ogni momento, è chiamato a difendere dall’annientamento un’intera nazione e un intero popolo. Un uomo che con le sue scelte può scatenare una guerra di ricaduta mondiale. Un uomo interamente cosciente di questo suo ruolo e che ne porta sulle spalle il peso. Lo si vede nella sua figura, nei suoi passi pesanti, nella voce profondissima, baritonale, nelle parole che escono con calma, precisione ma con la pesantezza di pietre. Qui si coglie la politica nel suo senso più grande e tragico. Chi gestisce il potere e decide di farsi carico fino in fondo delle conseguenze delle proprie scelte, ne porta i segni anche sul corpo. Chi fa politica nel suo significato più profondo è un demiurgo della storia e, nel momento in cui questa è in atto, non è possibile giudicarla. La condanna di ogni grande politico è che sarà giudicato solo dal futuro, probabilmente quando non ci sarà più e dopo che in vita sarà stato per lo più vilipeso. Questa è la politica e Netanyahu ne sembra un’incarnazione perfetta.
Dopo un saluto sbrigativo, ci siamo seduti e abbiamo parlato di Yoni e di come sia stato la figura essenziale che lo ha avvicinato alla vita politica con il preciso scopo di continuare a difendere Israele dopo aver servito, anche lui, nell’unità Sayeret Matkal.
Mi dice che la sua vita sarebbe stata sicuramente diversa se il fratello non avesse perso la vita sacrificandosi per il suo paese. Che forse sarebbe arrivato comunque alla politica ma sicuramente non così presto come ha fatto. Gli chiedo poi se non pensi che la minaccia a cui oggi è sottoposto Israele sia inferiore a quella che invece aveva vissuto Yoni, quando quotidianamente il paese poteva aspettarsi un attacco da uno qualsiasi degli stati arabi circostanti.
Mi risponde che non è assolutamente così. Che la minaccia oggi è molto maggiore, che un tempo non lanciavano razzi all’interno di Israele come invece riescono a fare oggi tanto Hamas quanto Hezbollah, entrambi ampiamente finanziati dall’Iran che adesso, con l’interruzione delle sanzioni, disporrà di una gran quantità di miliardi di dollari in più da investire sul terrorismo internazionale e su quello contro Israele in particolare.
Per non parlare della minaccia ultima, quella definitiva,in grado di sconvolgere l’ordine mondiale oltre che mettere definitivamente a repentaglio l’esistenza stessa di Israele: la bomba atomica.
Fare i conti giornalmente con la possibilità di essere letteralmente spazzati via è sufficiente a rendere Israele un luogo di assoluta eccezione e la determinazione di vivere e resistere un marchio di grandezza. Ma non è solo questo, c’è di più. La questione degli insediamenti è da sempre una delle più complesse per Israele e, dico al primo ministro, da sempre appare come una delle note più spinose sulla via della pace. Poi, però, nel momento in cui sono state fatte concessioni senza precedenti, sia da Ehud Barak nel 2000 che da Ariel Sharon nel 2005, niente ne è venuto, anzi, quelle concessioni sono state viste come un segno di debolezza, come un segno che Israele stesse battendo in ritirata, e i risultati in termini di sicurezza e di attacchi sono decisamente peggiorati.
Netanyahu mi dice che gli insediamenti sono fondamentali per Israele e che spesso noi europei non riusciamo a coglierne il senso più profondo. Noi europei ragioniamo con i vecchi canoni del colonialismo: prendere possesso di una terra, anche se perlopiù disabitata e desertica come quella del West Bank, coincide automaticamente con un’occupazione. La cultura americana, invece, comprende molto meglio questo concetto. La terra, quando è vuota, è di chi riesce a trasformarla. Di chi riesce a trasformare un luogo del tutto inospitale e desertico in un prato verde che porta frutti grazie all’ingegno umano e all’innovazione di cui poi tutti possono beneficiare.
Ho visitato diversi insediamenti israeliani nel West Bank e ho avuto modo di vedere questa cosa con i miei occhi. Lì non si vive nel lusso, non si fa una vita facile. Gli insediamenti sono interamente circondati da cancellate e filo spinato. Ogni ingresso è vigilato da guardie armate. L’ostilità verso i coloni, verso quello che fanno, non è altro che distanza ideologica verso un popolo che cresce, si espande e genera bellezza e benessere dove altro non ci sarebbe se non deserto.
A questo punto chiedo al primo ministro come vede l’Europa nel futuro, le difficoltà che sta affrontando in particolare con l’immensa ondata migratoria che sta partendo dall’Africa e dal medio oriente. Dice che il problema essenziale era, rimane e sarà sempre di più in futuro l’islam radicale, perché accresce la sua influenza e la sua capacità di attrazione quanto meno lo si combatte, e la cosa più preoccupante è la sua straordinaria capacità di penetrazione anche in contesti europei. Mi dice che non è un caso se l’ondata migratoria degli ebrei europei verso Israele si fa ogni anno più intensa. Inoltre il problema è di tipo demografico, e qui Netanyahu cita Oriana Fallaci che aveva immaginato questo scenario. Un occidente privato del futuro dall’incapacità di creare ricambio generazionale è strutturalmente condannato a essere assimilato da chi invece di figli ne fa moltissimi, da chi cresce in numero e, perciò, in regime democratico, in influenza.
Sulla via del ritorno in Italia, il tassista che mi ha portato da Tel Aviv all’aeroporto era di origine georgiana, aveva circa settant’anni ed era arrivato in Israele nel 1970. Aveva combattuto nella guerra del Kippur e aveva continuato a servire nell’esercito come riservista fino a cinquantacinque anni. Gli ho chiesto come vedesse la politica israeliana e dalle sue risposte sembrava uno di quei tassisti grillini che chiamano La Zanzara: i politici sono tutti ladri, a me non piace nessun partito, a me piacevano solo i leader del passato come Begin o Rabin. A quel punto gli ho chiesto cosa ne pensasse in generale dello stato d’Israele. Ha assunto un’aria di grande calma e mi ha risposto semplicemente che Israele era la cosa più importante della sua vita perché, ha detto, “non mi fa sentire più soltanto ebreo, mi fa sentire israeliano”.
Ho pensato a lungo a questa risposta, cercando di capirne bene il significato che però, in realtà, era tutto lì davanti. Israele significa la costruzione di uno stato basato su un’identità condivisa e su una storia in cui tutti gli ebrei del mondo, più o meno credenti, possono trovare un’identità data dalla nuova identità statuale e territoriale che prima si disperdeva all’interno delle varie comunità locali. Attraverso i confini, attraverso la costruzione di una nazione si è generata o, per meglio dire, si è definita un’identità da coltivare e da difendere. L’Europa, chiaramente, non può più essere questo. Gli stati nazionali in occidente stanno perdendo il loro senso. Non perché questo sia stato deciso da qualcuno, ma perché le istituzioni sono come organismi, tendono a evolvere, a modificarsi, ad adattarsi all’ambiente circostante. La mutazione nelle tecnologie e nella percezione del mondo da parte degli individui ha naturalmente portato all’abbattimento delle frontiere tra gli stati più avanzati e mutualmente pacifici generando, in modo spontaneo, la tensione verso un nuovo ordine. Un ordine che, però, non è ancora qui.
Ed è proprio nel momento della mutazione, in quel momento di indefinitezza di identità, che si è più vulnerabili agli attacchi.
L’Unione europea è un oggetto indefinito e senza forma. Viene percepita inevitabilmente, data la sua natura, come un corpaccione burocratico che aggiunge leggi, cavilli e imposizioni a quelle già fin troppo stringenti dei singoli stati. Tornare indietro, nella comfort zone della difesa delle frontiere nazionali, è semplicemente impossibile. Non si possono resuscitare cadaveri, per quanto pensarlo ci possa far stare bene. Ciò che bisogna fare è creare una nuova identità che prima era data dai confini locali ormai irrimediabilmente disintegrati e non disintegrati soltanto a livello politico ma a livello di percezione individuale. Su cosa allora ricominciare a costruire un’identità comune? Cosa ci sarebbe da difendere, cioè attorno a cosa ci si può stringere per trovare una nuova identità e quindi una vera unione? La risposta mi sembra che possano essere i valori condivisi e la loro difesa con tutti i mezzi, la certezza di essere ancora quella parte del mondo che, come scrive Cormac McCarthy in “The Road”, porta il fuoco anche nella notte più buia.
Per questo bisogna guardare a Israele e a figure come quelle di Yoni, che sono il massimo che la parola occidente possa esprimere in questo momento, come a un faro da seguire. Sta scritto nella Torah “E sceglierai la vita!” ma per farlo, per compiere la scelta e per sostenere la vita è necessario accettare la possibilità del suo perenne contraltare, la morte. In una lettera del 1963 Yoni scrive: “La morte, quella è l’unica cosa che mi disturba. Non mi spaventa, accende la mia curiosità. E’ un puzzle che io, come molti altri, ho cercato di risolvere senza successo. Non la temo perché attribuisco poco valore a una vita senza scopo. E se dovessi sacrificare la mia vita per raggiungere il suo scopo, lo farei volentieri.”
“Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo”, scriveva Benedetto XVI in “Caritas in Veritate”. Non avendo più un’identità definita, non avendo più un’identità fondante, non avendo più una verità su noi stessi su cui poggiare, si resta senza punti di riferimento. Allora si cerca una nuova base sociale nei buoni sentimenti. Ci si guarda e ci si contempla dicendo: quanto siamo buoni. E quello diventa il nuovo punto di riferimento. Il nuovo sostrato su cui basare ogni nostro giudizio a cui fare sempre riferimento. La razionalità e il realismo diventano oggetti estranei e mostruosi, categorie che dovrebbero essere quelle del politico scompaiono innanzitutto dalla politica, che viene sommersa e dominata dalle ondate popolari di emotività e umanitarismo un tanto ra come quella di Yoni Netanyahu rappresenta tutto quello che si dovrebbe essere. Un giovane pienamente cosciente del suo ruolo, della sua drammaticità ma anche della sua assoluta necessità.
L’idea che il male non si batte provando a rieducarlo, non si batte con il buon esempio, non si batte sentendo e propagandando un insensato senso di colpa, non si batte mostrandosi buoni. Il male si batte soltanto con un cosciente, per quanto drammatico, atto di violenza. Questo significa guardare in faccia la propria epoca con realismo e razionalità. Significa assumersi la responsabilità di agire su di essa e di plasmarla secondo quei valori che noi riteniamo giusti e da difendere. Per questo nulla è possibile, nulla cambierà finché non decideremo di smetterla di giocare con i buoni sentimenti e di tornare, con sguardo lucido e mente fredda, a pensare chi vogliamo essere. Altrimenti, come è giusto che sia, come capita a tutto ciò che smette di combattere per vivere, saremo sommersi e sostituiti.