La vera misericordia secondo il cardinale Biffi

Istruire gli ignoranti, consigliare i dubbiosi, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti

di Giacomo Biffi

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Vorrei confidare qualche mio sparso pensiero sull’elenco delle così dette “opere di misericordia spirituale”, che mi pare oggi il più sbiadito nella coscienza comune. Come giacciono nei vecchi catechismi, scritti quando ancora si chiamavano ingenuamente le cose con il loro nome, ci appaiono un po’ ruvide e spigolose. Forse perché la nostra anima, per così dire, si è fatta più delicata e irritabile.
Rileggiamole (ci permettiamo di invertire l’ordine tradizionale delle prime due opere, sulla scorta del Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2447, per facilitare la logica del discorso):
1. Istruire gli ignoranti
2. Consigliare i dubbiosi
3. Ammonire i peccatori
4. Consolare gli afflitti
5. Perdonare le offese
6. Sopportare pazientemente le persone moleste
7. Pregare Dio per i vivi e per i morti

TUTTI DESTINATARI
A differenza delle opere di misericordia corporale, dove (di solito, se non sempre) chi dà da mangiare non è affamato e chi patisce la fame non è in condizioni di dar da mangiare, qui il benefattore e il beneficiario non sono adeguatamente distinti. Anzi è buona regola non distinguerli affatto: di queste “opere” siamo tutti destinatari. E’ bene quindi che ciascuno di noi si consideri al tempo stesso “istruttore” e “ignorante”, saggio consigliere e dubbioso, paladino della giustizia e peccatore, capace di consolare e desideroso di consolazione, chiamato a perdonare le offese e offensore, deciso ad aver pazienza e sempre sul punto di farla perdere agli altri, intercessore a favore di tutti presso Dio e bisognoso della preghiera fraterna di tutti. Solo mantenendoci in quest’ottica possiamo sperare di intraprendere un esame fruttuoso delle “opere” che ci vengono raccomandate.

I NOSTRI COMPITI PROPRI
Il discorso sulle “opere di misericordia spirituale” assume poi una rilevanza e un’attualità eccezionale, se è volto a chiarire quale sia l’indole propria della solidarietà che la Chiesa come tale deve esercitare nei confronti dell’umanità. Nessun dubbio che l’amore cristiano, suscitato e sorretto dall’Eucaristia, debba esprimersi anche nell’offrire ai più sfortunati, per quel che è possibile, un apporto valido perché risolvano positivamente i loro problemi esistenziali primari e possono godere di uno stato conforme alla loro dignità di persone. Guai se la Chiesa lo dimenticasse. Ma guai se riducesse a questo la sua azione nel mondo. Guai a noi se a poco a poco finissimo col pensare alla Sposa di Cristo come a una sorta di ente assistenziale o come a un surrogato e a un coadiuvante della Croce Rossa Internazionale. Il pericolo di questo inconscio travisamento non è oggi irreale, favorito com’è dagli interessi delle potenze mondane e anche dalla nostra preoccupazione di essere un poco accettati dalla cultura dominante. Certamente la comunità cristiana va continuamente spronata alla generosità anche in questi settori: è la parola stessa di Gesù ad ammonirci in tal senso (cfr. Mt 25,31-46). Ma di fronte alla sempre soverchiante miseria umana, non deve nutrire complessi di colpa non pertinenti. Va detto con molta chiarezza che direttamente e per sé non tocca a noi risolvere alla radice i problemi sociali: sarebbe integralismo pensarlo, sarebbe addirittura il tentativo illegittimo di affiancarsi alla società civile, pretendendone gli stessi compiti statutari e le stesse responsabilità. Alla comunità cristiana tocca – ed è dovere amplissimo ed esigentissimo – l’impegno di tradurre ogni giorno la sua fede, secondo quanto in concreto le è dato, in un’azione di carità che raggiunge i fratelli in ogni loro situazione e in ogni loro effettiva necessità. Sotto questo profilo, l’indugiare un poco sulle così dette “opere di misericordia spirituale” sarà forse di qualche utilità a mantenere nel giusto equilibrio la nostra visione della presenza operativa dei cristiani e anzi ricordare ciò che è in maniera più immediata, inerente alla missione della Chiesa nel mondo.

1) ISTRUIRE GLI IGNORANTI
Ignorante non vuol dire senza cultura e senza erudizione. Ignorante è chi non conosce proprio le cose che più dovrebbe conoscere, e può essere anche un professore universitario o un famoso scrittore. Si evoca qui la strana condizione dell’uomo, e specialmente dell’uomo di oggi, che sa tutto tranne le cose che contano, che conduce a termine le indagini più complicate ed è muto davanti alle domande fondamentali e più semplici, che è in grado di andare a raccogliere i sassi della luna e non può dirsi che cosa è venuto a fare sulla terra. Ignorare quale sia il significato del nostro stesso vivere; ignorare quale sia il destino che alla fine ci aspetta; ignorare se la nostra venuta all’esistenza abbia come premessa e come ragione un disegno d’amore oppure una casualità cieca: questa è la notte assurda che implora oggettivamente di essere rischiarata. Il primo e più grande atto di carità che possa essere compiuto verso l’uomo è quello di dirgli le cose come stanno. Che vuol dire anche svelargli la sua autentica identità. Questa è la prima misericordia che la Chiesa esercita – deve esercitare – nei confronti della famiglia umana: l’annuncio instancabile della verità. La salvezza dei nostri fratelli direttamente e per sè non sarà tanto il frutto della nostra affabile capacità di ascolto e di dialogo (cosa importante però e da non trascurare), ma della verità divina proclamata senza scolorimenti e senza mutilazioni. Gesù ha connesso il dono della sua carne e del suo sangue con l’accoglienza della sua parola, anche di quella più difficile da accettare. Il discorso eucaristico di Cafarnao provoca, più di ogni altro nel Vangelo, il rifiuto di molti: “Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?” (Gv 6,60). Ma il Signore non ritiene che in questo campo si possano dare sconti agevolanti: “Forse anche voi volete andarvene? Gli rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 67-69).

2) CONSIGLIARE I DUBBIOSI
Le esitazioni, le perplessità, le titubanze sono dell’uomo normale; il quale, quanto più è perspicace nelle valutazioni e nell’analisi, tanto più si sperimenta insicuro nelle decisioni. Gli irriflessivi e gli ottusi invece sanno di solito subito che cosa fare. D’altra parte vivere significa agire, e agire significa superare le incertezze. Sicché talvolta un parere sensato dato a un amico, che lo aiuti a risolversi per il meglio, rappresenta spesso un regalo davvero prezioso. I pareri però è meglio darli quando vengono richiesti, se no, servono solo a guastare delle amicizie. E anche quando si è interpellati, è opportuno (se lo si può fare senza andare contro coscienza) offrire i consigli che il richiedente si aspetta di ricevere, diversamente egli si convincerà di non essere stato capito o avrà qualche dubbio sulla saggezza del consigliere. Ma quando si tratta delle questioni fondamentali dell’esistenza, il superamento del dubbio è un’esigenza intrinseca alla funzione salvifica della verità. E’ grande carità ricordare questo principio alla cultura contemporanea. Noi viviamo in una società che sembra privilegiare il dubbio: secondo qualcuno esso sarebbe il segno di una mente libera e aperta a tutti i valori, mentre le certezze (e in particolare le certezze di fede) esprimerebbero angustia, dogmatismo, intolleranza, chiusura al dialogo. Se però si fa un po’ di attenzione, non è difficile rendersi conto che quanti colpevolizzano l’indubitabilità dei credenti, hanno sempre essi stessi delle convinzioni che ritengono indiscutibili. Sicché ci si avvede che non si tratta tanto di critica ragionata delle certezze come tali, quanto di insofferenza verso le certezze altrui. Le certezze cristiane poi hanno migliori probabilità di essere dei valori oggettivi e non delle pure ostinazioni, se chi le ospita nel suo animo le percepisce e si sforza di possederle non tanto come idee sue proprie, ma come piena e personale comunione con la luce indefettibile che alla Chiesa è stata donata dallo Spirito di verità e resta patrimonio inalienabile della Sposa di Cristo lungo tutti i secoli della sua storia. Abbiamo una sola vita da vivere: è indispensabile, per non rischiare di sciuparla, rinvenire dei punti fermi in mezzo alla varietà e alla volubilità delle opinioni. Abbiamo una sola vita da vivere: non possiamo aggrapparla a dei punti interrogativi. Il saper offrire all’uomo disorientato la base di certezze indubitabili è la seconda misericordia della Chiesa.

3) AMMONIRE I PECCATORI
Il peccato agli occhi della fede, è la peggior disgrazia che possa capitarci. Dare una mano al fratello perché se ne liberi, significa volergli bene davvero. “Chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore – scrive l’apostolo Giacomo – salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati” (Gc 5,20). E la Lettera ai Galati: “Quando uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1). La correzione fraterna è però iniziativa delicata e non priva di rischi. Non bisogna mai perdere di vista la pungente parola del Signore: “Come potrai dire al tuo fratello: permetti che tolga la pagliuzza dal tuo occhio, mentre nell’occhio tuo c’è la trave?” (Mt 7,4). Così pregava a questo proposito sant’Ambrogio: “Ogni volta che si tratta del peccato di uno che è caduto, concedimi di provarne compassione e di non rimproverarlo altezzosamente, ma di gemere e piangere, così che mentre piango su un altro, io pianga su me stesso”. E sarà bene in ogni caso restar persuasi che “la miglior correzione fraterna è l’esempio di una condotta irreprensibile”. Nella valenza più universale e più sostanziosa, questa terza proposta di bene ci insegna che appartiene alla missione propria della Chiesa adoperarsi perché non si perda nella coscienza comune il senso di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Secondo la suggestiva pagina che apre la sacra Scrittura, l’azione creatrice di Dio comincia con una distinzione tra la luce e le tenebre (cfr. Gen 1,4), così come l’inizio della catastrofe dell’uomo è dato dal miraggio di diventare come Dio padroni del bene e del male (cfr. Gen 3,5). Perché tutto non ricada nel caos primitivo e perché il suggerimento satanico non prosegua il suo avvelenamento dei cuori, bisogna senza scoraggiarsi chiarire agli uomini che solo la legge di Dio è la misura della moralità dei nostri atti e che distinguere il bene dal male è la premessa indispensabile per una vita che sia davvero umana. E questa è la terza misericordia della Chiesa.

4) CONSOLARE GLI AFFLITTI
Chi si propone di consolare gli afflitti non resterà mai disoccupato in questo mondo. “La malinconia ha rovinato molti, da essa non si ricava nulla di buono” (Sir 30,23), ci dice il Libro di Dio. E tuttavia non abbiamo troppe ragioni di stare allegri, o almeno non abbiamo ragioni che non siano presto travolte dalle vicissitudini dell’esistenza. Già Omero diceva che l’uomo è il più infelice degli esseri che respirano sulla terra; ed è un’amarezza che percorre tutta la letteratura del paganesimo, contrariamente a quanto talvolta si cerca di far credere. La questione della gioia è una questione seria. E si pone in questi termini: noi siamo fatti per la felicità, e tuttavia essa ci appare troppo spesso una condizione inarrivabile. Il modo moderno di vivere – pieno di agi e insaziabile nell’escogitare forme inedite di gratificazione e di piacere – sembra addirittura aver accresciuto, contro ogni intenzione, i motivi di tristezza e di desolazione. I dati in espansione dei suicidi ne sono una prova evidente: “La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10), osservava già san Paolo. Al modello sociale che oggi si afferma noi non rimproveriamo affatto di mirare a raggiungere il godimento e il benessere: rimproveriamo piuttosto di non riuscirci. Perché se non si gode con significato e con serena speranza, non si gode affatto. Il cristianesimo è realista: sa che l’uomo è collocato in una valle di lacrime, e che, lasciato alle sole sue forze, non è in grado di evaderne se non negli spazi più angusti dei divertimenti effimeri e delle illusioni. Ma il cristianesimo non può e non deve dimenticare di essere essenzialmente un “evangelo”, cioè un annuncio di gioia. E’ la gioia di una salvezza avverata, già in atto, che aspetta soltanto che l’uomo le si apra. E’ una salvezza già adesso alla nostra portata: l’Eucaristia è qui a dirci che l’evento salvifico e la persona del Salvatore sono qui e oggi tra noi. Ed è la quarta misericordia, preannunciata da Gesù la sera prima di essere crocifisso: “La vostra afflizione si cambierà in gioia” (Gv 16,20).

5) PERDONARE LE OFFESE
Tra le inaudite indicazioni evangeliche questa è forse la più sorprendente “Se tuo fratello pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte al giorno ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17,4). E’ già un’impresa difficile; ma almeno qui si tratta di un offensore che si scusa. In realtà, l’insegnamento complessivo di Cristo è più ampio e incondizionato: “Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati” (Mc 11,25). A questa scuola gli apostoli insegnano: “Non rendete a nessuno male per male (Rm 12,17); anzi, “benedite coloro che vi perseguitano” (Rm 12,14). E’ un linguaggio che abbiamo in orecchio e non ci impressiona più. Ma la sua attuazione pratica è lontanissima dalle consuetudini umane, nelle quali dominano i risentimenti e i rancori coltivati. Una delle cause più forti del malessere sociale è data proprio dall’imperversare dell’odio e delle vendette, che innescano una catena interminabile di rappresaglie e quindi di sofferenze. Di qui l’importanza della quinta misericordia che la Chiesa reca al mondo: l’incitamento a far prevalere in tutti la “cultura del perdono”. Ogni volta che viene celebrata l’Eucaristia si immette nella nostra storia di uomini un’energia di bene atta a fronteggiare nei cuori gli assalti sempre ricorrenti dello spirito di animosità e di rivalsa, perché ogni volta si riattualizza nel mistero il trionfo della redenzione e della clemenza divina sulla ripullulante malvagità umana.

6) SOPPORTARE PAZIENTEMENTE LE PERSONE MOLESTE
Ci dobbiamo mettere tutti nel numero delle “persone moleste”, chi più chi meno naturalmente. Il suggerimento va dunque a vantaggio di tutti. E tutti dobbiamo imparare la virtù della sopportazione. Solo un’ingenuità illuministica – destinata ben presto alla delusione – potrebbe farci pensare che gli uomini siano nativamente simpatici e che su questo principio possa fondarsi e reggersi la nostra filantropia. Come al solito, il cristianesimo è più attento alla verità delle cose. Non perché siamo buoni e amabili, dobbiamo voler bene agli altri, ma perché è buono Dio che per amore ci ha creati tutti, noi e loro. Sarebbe interessante, anche se un po’ rischioso, fare un elenco almeno per categoria delle “persone moleste”. Diciamo solo che vi si ritrova spesso anche la gente più stimabile e meglio intenzionata. Per esempio, coloro che hanno uno zelo eccessivo e non si rendono conto che se il male non va fatto mai, il bene non va fatto sempre tutto e da tutti. Per esempio, gli amici giornalisti che devono pur guadagnarsi il pane, ma qualche volta se lo guadagnano cercando di farti dire non ciò che a te preme di dire, bensì ciò che a loro pare più adatto a costituire una notizia interessante. Per esempio, i cardinali che, magari credendo di far bene, tengono discorsi troppo lunghi e noiosi. Ciò che importa di più è che ci convinciamo di essere tutti, per il verso o per l’altro fastidiosi e irritanti per il nostro prossimo. D’altronde, finché non entreremo nel Regno dei cieli nessuno di noi è dispensato dalla necessità di aver pazienza. E appunto l’abitudine alla pazienza è la sesta misericordia che la comunità cristiana può offrire ad un’umanità che si fa ogni giorno più intollerante e più esosa. Secondo una celebre definizione di Newman, il gentiluomo è colui che non dà mai pena agli altri. E’ un ideale perfettamente evangelico che dobbiamo proporre a tutti e prima ancora dobbiamo tentare di avverare nelle nostre parole e nei nostri comportamenti.

7) PREGARE DIO PER I VIVI E PER I MORTI
Dare agli altri il soccorso della nostra preghiera è un significativo atto di amore, e ci aiuta a oltrepassare quell’egoismo spirituale che, anche nel rapporto religioso, ci impedisce di evadere dalle angustie dei nostri personali interessi. Ciascuno di noi deve temere di stare solo al cospetto di Dio: sentirsi avvalorati dalla voce implorante per noi dei nostri fratelli ci rincuora. Così come la nostra orazione è impreziosita se si fa davvero “cattolica”, consapevole che i figli di Dio sono una sola famiglia affettuosamente compaginata; una famiglia che nemmeno la morte riesce veramente a dividere. La forma più alta di questa preghiera universale è la celebrazione eucaristica, perché il sacrificio della messa – ci ricorda l’insegnamento sempre attuale del Concilio di Trento – “viene offerto non solo per i peccati, le pene, le soddisfazioni e le altre necessità dei fedeli viventi, ma anche per coloro che sono morti in Cristo e non sono ancora pienamente purificati”. L’intercessione per tutta l’umanità è l’ultima misericordia che, secondo questo elenco, la Chiesa fa piovere su tutte le genti. E anzi qui sta, propriamente parlando, la funzione del sacerdozio battesimale: il popolo di Dio radunato da ogni regione, da ogni stirpe, da ogni cultura, eleva unitamente a Cristo suo capo e suo principio di vita una supplica ininterrotta, e offre la Vittima unica e pienamente efficace, resa presente sull’altare, a favore dell’intera creazione, implorando così su tutti gli uomini la grazia salvifica del padre di tutti.

CONCLUSIONE
Mi rimane da esprimere ancora un pensiero, che valga come conclusione di quanto si è detto. Colui che è il vero e perenne protagonista delle opere di misericordia è il Signore Gesù. Egli si fa presente nelle nostre chiese sotto i segni eucaristici per dirci che: non c’è atto veramente cristiano ed ecclesiale di attenzione agli altri che non tragga da lui il suo slancio, la sua potenza, la sua giustificazione; per dirci che non possiamo mai separare neppure mentalmente le nostre iniziative di solidarietà da quell’innamoramento personale di lui, che tutte le ispira e le qualifica; per dirci che il grande pericolo del cristianesimo dei nostri giorni è quello di venire a poco a poco ridotto, magari per la generosa preoccupazione di accordarsi con tutti, a un insieme di impegni umanitari e all’esaltazione di valori che siano “smerciabili” anche sui mercati mondani. Egli resta veramente, realmente, corporalmente in mezzo a noi e ci aspetta, come il grande e vero dispensatore di ogni misericordia; la misericordia della verità contro le insidie delle ideologie bugiarde; la misericordia della certezza contro la cultura del dubbio; la misericordia di indicarci dove stia il bene e dove stia il male contro le molte confusioni in cui siamo immersi; la misericordia della gioia che vince ogni tristezza; la misericordia del perdono per tutti i nostri sbagli piccoli o grandi; la misericordia di aver pazienza con noi, nonostante le nostre piccinerie e le nostre inconcludenze; la sua misericordia di pontefice fedele (cfr. Eb 2,12) che intercede per tutti. All’altare e nel tabernacolo “non abbiamo un sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati nel momento opportuno” (Eb 4,15-16). Così sia in tutta la nostra vita.

Titolo originale: Eucaristia e opere di misericordia
Fonte: Congresso Eucaristico di Siena, 3 giugno 1994

Pubblicato su BastaBugie n. 344