FELTRI: Ho paura. Ho deciso di vantarmene. E mi assumo il compito di propagarla

 

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di Vittorio Feltri

Ho paura. Ho deciso di vantarmene. E mi assumo il compito di propagarla. Mi rendo conto. Non si comincia così un libro contro la morte che arriva al galoppo impugnando la scimitarra. Non è molto nobile. Si deve cominciare con un grido di guerra. Eppure, lo confesso: ho deciso di buttare la fifa oltre l’ostacolo.

Ho paura adesso, e anche per dopo. Per quando queste mie pagine saranno in giro per l’Italia.

E qualche frase rimbalzerà su Internet. S’incazzeranno, oh se si incazzeranno. Perché ho intenzione di scrivere la verità su quel che ha, in testa e nella pancia, non solo la gentaglia con le bandiere nere e le mani sul collo di poveri prigionieri vestiti di arancione, ma anche il musulmano dal dolce sorriso ospite di trasmissioni tivù, dispiaciuto per i morti e nemico, come no, del terrorismo. Prevedo l’accusa di provocatore irresponsabile. Papa Francesco dirà che mi merito un pugno. Portatemi pure in tribunale, sempre meglio dell’obitorio, a cui siamo destinati in tanti se la paura non ci desterà dal sonno dei pirla.

Maria-Giulia-Sergio

Dirò qui la verità sugli islamici e il loro Allah con il Profeta Maometto appresso. Non la Verità con la V maiuscola, per carità. La verità con la v minuscola ritengo sia la più importante acquisizione della mia vita. Ho imparato ad attingerla con il cucchiaio dell’osservazione e dell’esperienza, senza presumere divine rivelazioni. Non c’è bisogno di essere arabisti per capire, anche senza assaporarne i suoni aspirati, che il Corano ha in sé una potenza distruttiva assoluta verso chiunque manifesti un sussulto di libertà e dica no al dominio di un libro che si è fatto Dio, così come si sono fatti suoi boia coloro che lo impugnano.

Ho paura. Lo ridico. Si osservi la realtà.

Un Coulibaly e due Kouachi si sono manifestati a Parigi. Quanti Coulibaly a Milano, quanti Coulibaly a Londra? Mi faccio questa domanda, e mentre la scrivo con la Olivetti 32, un Coulibaly qualsiasi spara contro un vignettista e gli avventori in un bar di Copenaghen, e altri danno l’assalto alla sinagoga della capitale danese. Intanto lo Stato islamico avanza in Libia, con giganti vestiti di nero che sgozzano 21 cristiani copti minuscoli, a un tiro di missile Scud, magari nucleare.

Non è vero che queste immagini, da loro diffuse con orgoglio, vogliano impaurirci. Hanno un altro scopo: quello di inorgoglire i loro correligionari di casa nostra, e di spingere ragazzi annoiati a convertirsi all’onnipotenza. Poi, certo, desiderano indurci alla resa. Come quelle povere madri ebree in fila verso la camera a gas con i bambini per mano. Dobbiamo avere più paura di quella che abbiamo. Una paura così grande da trasformarsi nel coraggio di uccidere per non morire. Una paura intelligente, organizzata. Senza il cappello in mano per domandare l’elemosina della vita (quelli non si commuovono, figuriamoci), ma con l’elmetto in testa e un pugnale tra le mani. Ci ammazzeranno lo stesso, forse, ma forse vinciamo.

Non riesco, non riuscirò mai a capire chi accetta di scavarsi la fossa, e lo fa sotto il tiro di un fucile, sapendo che chi impugna la carabina tra un minuto ripagherà la sua fatica sparandogli. Nell’isola di Utøya, in Norvegia, il 22 luglio 2011, un uomo solo uccise 69 ragazzi (dopo aver ammazzato 8 persone nel centro di Oslo). Sull’isola, quel giorno, c’erano seicento giovanotti in gamba, motivati politicamente, pieni di energia. La loro paura li disarmò, li spinse a nascondersi. Se gli andavano addosso insieme, tremando come foglie di sicuro, ma stringendosi l’uno all’altro per la fifa, il killer ne avrebbe stecchiti quattro o cinque, poi gli altri 595 avrebbero sbranato quell’Anders Breivik, che adesso, condannato a 21 anni, è triste per non averne ammazzati abbastanza.

(Mia nota: condannare solo a 21 anni un pluriassassino è una fesseria. Per un feroce assassino come lui ci vuole carcere duro a vita e tortura tutti i giorni. Gli assassini debbono aver paura di essere presi vivi)

Ho scritto questa verità elementare, e mi hanno attaccato come se avessi offeso le vittime. E dire che il mio articolo nasceva dall’immedesimazione con quei disgraziati. Vale adesso per noi. Dobbiamo organizzare la paura, consapevoli che il nemico di Charlie Hebdo non si fa intenerire dai tremori.

Ho paura. Eppure ho paura di non avere abbastanza paura per riuscire a trasmettervela.

Siamo un po’ tutti così, noi dell’Occidente che non sta capendo un accidente. Tiepidi non dico nel coraggio, ma persino nel timore, inclini a minimizzare, a ritenerci salvi nel nostro orto per non si sa quale magia o corazza invisibile.

Domina una sorta di ottimismo idiota. È sintetizzabile con il motto: «Male non fare, paura non avere». Lo so che lo ripeteva la mamma a Enzo Biagi. Vale in un mondo perduto. È una regola utile quando incontri un orso in Trentino. Con i musulmani non funziona. Non è vero che se stiamo buoni, se non reagiamo, se non sfioriamo neanche con un fiore il turbante di Maometto, i suoi adepti ci lasceranno stare. Basti guardare come nelle loro terre gli islamici scannano i cristiani, che pure abitavano lì prima di loro. Maometto lo fece con gli ebrei di Medina, ne sgozzò personalmente settecento (ma c’è chi dice novecento). Secondo questa teoria, tutto nasce dalla nostra cattiveria. E prima da quella degli americani. E prima ancora dei crociati. Per cui se consentiamo loro, qui da noi, di costruirsi le moschee, di intabarrare le loro donne nei veli, oltre che di percuoterle e segregarle, considerandoli affari loro, nulla di male ci capiterà. È l’idea dell’Occidente e in particolare dell’Italia come brodo multiculturale. Tu non fai una cosa a me, io non la faccio a te. Tolleranza.

Balle suicide. Chi ragiona così non sa nulla dell’islam. Lo misura sulla base del sorriso che gli dedica il pizzaiolo egiziano. Eppure l’ho visto il sorriso largo un metro della colf somala, che mi aveva sempre servito gentilmente le polpette, alla notizia delle Torri Gemelle. Non che il pizzaiolo e la colf siano più cattivi di te e di me. Là il Corano , una volta che ne inghiotti gli insegnamenti, è una sorgente di morte (per gli altri).

Non faccio nessun appello al coraggio. Il coraggio se n’è andato dall’Italia il 15 settembre 2006, quando le campane di Santa Maria del Fiore hanno salutato Oriana Fallaci, e l’abbiamo seppellita. Abbiamo rovesciato palate di terra sul suo grido «Troia brucia, Troia brucia». Per questo mi affido all’arma estrema e molto albertosordiana della vigliaccheria per sopravvivere, sperando che le generazioni future – se mai oseranno nascere – riprendano una certa fierezza di esistere, un orgoglio da noi sepolto nella noia.

***

Mi rendo conto di apparire rozzo e irresponsabile, populista e ignorante agli occhi della sinistra al caviale e del cretinismo parrocchiale, quello che della lezione di Ratzinger a Ratisbona non ha capito nulla. Si potrebbe chiamare «complesso di Lepanto». Coincide con il rimorso spalmato sulla coscienza collettiva dell’Occidente dal marxismo terzomondista e dal suo gemello cattocomunista secondo cui è ben giusto che paghiamo il prezzo delle crociate di Roberto il Guiscardo. E soprattutto è stato criminale fermare l’avanzata turca con la guerra, il cui momento decisivo è rappresentato appunto dalla battaglia navale di Lepanto, quando vascelli veneziani, genovesi, spagnoli e pontifici annientarono il 7 ottobre 1571 la flotta ottomana del sultano protesa alla conquista di Roma. Alì Pascià ci lasciò la pelle. E la sua maledizione perseguita ancora tante anime belle, convinte che la faccenda si sarebbe dovuta appianare con il dialogo. Da qui una debolezza mentale che ci tiriamo dietro. Ce la saremmo voluta noi, che paghiamo la colpa dei nostri antenati, questa incazzatura della Mezzaluna.

L’invasione islamica, del resto, dopo quella data non ha mai smesso di essere desiderata dai musulmani. E il territorio perduto, rivendicato. La «reconquista» della regina Isabella che si riprese l’Andalusia lo stesso anno della scoperta dell’America, 1492, esige secondo gli arabi di essere vendicata con la «re-reconquista». La cacciata dei 300.000 mori dalla Spagna (1609) esige, secondo gli imam, il risarcimento di una rioccupazione del territorio. E infatti questa procede, eccome se procede, fino a trasformarci in Eurabia. Un processo che nelle librerie e nei caffè parigini e sulle terrazze romane è stato interiorizzato senza protestare.

Certo, quando questa invasione esagera nei modi, impedisce la satira e mitraglia Charlie (gli ebrei del negozio kosher sono meno popolari, e si ricordano meno), per un paio di giorni esponiamo tutti il cartello dell’indignazione e della solidarietà. Ma poi ci si riaccomoda a sopportare il procedere dell’invasione. La quale non si è ancora realizzata pienamente in senso fisico, in compenso da tempo l’Occidente è sotto il dominio di una cultura propensa ad aprirle le porte. C’è un sistema di credenze che inzuppa la testa dei governi e di tutto l’ establishment editoriale e finanziario, cedevole verso l’islam e spietato con chi eccepisce e non intende rinunciare a una certa spiacevole sensazione di turlupinatura quando gli si parla della bontà di Allah e dei suoi seguaci più infatuati.

In conclusione, il tipo dell’intellettuale con gli occhialini, mescolato ai teologi e agli islamologi, ha licenza esclusiva di occupazione di giornali, librerie, scuole, università, chiese e tribunali. Il multiculturalismo tollera solo la cultura multiculturale. Perché, grazie alla magia del suo nome, ha il pluralismo incorporato, e dunque chi eccepisce si pone fuori dal consesso democratico. È una specie di partito unico, essendo già multipartitico nel nome.

Questa pre-invasione, questo pasturaggio culturale, funziona come una specie di fumisteria di oppio. Intasa le menti con la leggenda di un islam fiabesco, profumato di spezie, con i tappeti volanti e il cielo stellato sopra bianchi minareti, insozzato dalle cattiverie occidentali. I fatti di Charlie Hebdo hanno smagato la favola? Per un attimo. Poi sono tornati in massa gli esperti a separare l’accidente del terrorismo dalla sua sostanza religiosa, quasi che il primo sia un virus occidentale inoculato in un corpo orientale innocente. Secondo la colta vulgata da salotto televisivo e da dibattito universitario, questa religione di vergini incantevoli e fedeli misericordiosi non c’entra nulla con la sua esibizione terroristica. È vero, ammettono: il grido «Allah u Akbar» ovvero «Allah è il più grande» è il marchio di fabbrica della violenza riversata per esempio a New York, Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles, ma è un fenomeno spiegabilissimo senza coinvolgere l’islam e il Corano

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