Le donne musulmane sono vittime di molteplici discriminazioni per l’intersezione di più fattori: essere donne, essere immigrate, essere musulmane e l’inserimento sul lavoro è uno dei maggior svantaggi rilevati. E’ quanto emerso dal rapporto dell’ENAR (European Network against Racism) sul caso italiano portato avanti nell’ambito del progetto europeo “Donne dimenticate” a cui la Casa internazionale delle donne di Roma ha dedicato una giornata di approfondimento con rappresentanti di associazioni di donne, movimenti antirazzisti, Ong, ricercatrici, giuriste, giornaliste.
“L’ambito lavorativo è quello in cui emergono maggiormente discriminazioni e fenomeni di islamofobia – ha sottolineato Giulia Dessì, ricercatrice responsabile del rapporto ENAR sull’Italia -. Ho intervistato faccia a faccia diverse donne musulmane, italiane e straniere, ed è l’abbigliamento, in particolare il velo, a creare i maggiori ostacoli sul lavoro. A molte donne viene chiesto di toglierlo durante l’orario lavorativo e non tutte accettano. Purtroppo poche denunciano le discriminazioni. Nell’ultimo rapporto l’UNAR, l’ufficio anti-discriminazioni razziali, sono presenti solo due denunce da parte di donne musulmane“.
Ovviamente l’UNAR (che se non trovasse casi di discriminazione sarebbe costretta a chiudere) non prende in considerazione che forse le denunce sono SOLO DUE perchè tutta questa discrimanzione in realtà non esiste.
“Ho incontrato in prima persona difficoltà di inserimento sul lavoro a causa del velo nonostante io sia nata in Italia. Finora ho avuto solo promesse non mantenute” ha raccontato Sagidah Ahmad, 26 anni, laureata in lingue e letteratura moderna, rappresentante dell’associazione delle donne musulmane d’Italia che ha sede Milano. Hanno partecipato all’incontro, tra le altre, Loretta Bondi del direttivo della Casa internazionale delle donne, la ricercatrice Renata Pepicelli, la fumettista Takoua ben Mohamed, Barbara Giovanna Bello, rappresentante dell’associazione studi giuridici sull’immigrazione Asgi e la docente Annamaria Rivera.
Per la Pepicelli, il velo non è solo un obbligo sociale o religioso, ma anche un’estetica e uno stile di vita; non solo un simbolo imposto dell’islam politico, ma anche una libera scelta che si accompagna a quel ritorno delle religioni nella sfera pubblica che caratterizza il nuovo secolo. E addio laicità….
E così, mentre in Arabia Saudita giovani, intelligenti e moderne studentesse si battono per liberarsi del velo, le antiquate musulmane e filo-islamiche nostrane urlano al razzismo se viene chiesto di toglierlo.