Cassazione: Attenti a parlar male del capo, il dipendente può essere spiato

l dipendente può essere spiato anche su Facebook. Il via libera arriva dalla Cassazione ma non è generalizzato in quanto questa forma di controllo ‘occulto’, ottenuta attraverso la creazione da parte dell’azienda di un falso profilo Facebook, è ammessa per “riscontrare e sanzionare un comportamento idoneo a ledere il patrimonio aziendale” e non per controllare “l’attività lavorativa più propriamente detta”. Ecco perchè, dice la Suprema Corte, non si può dire che “la creazione del falso profilo facebook costituisca, di per sè, violazione dei principi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro, attenendo ad una mera modalità di accertamento dell’illecito commesso dal lavoratore, non invasiva nè induttiva all’infrazione, avendo funzionato come mera occasione o sollecitazione cui il lavoratore ha prontamente e consapevolmente aderito”.

La vicenda analizzata dalla Cassazione riguarda il ricorso di un operaio abruzzese addetto alle stampatrici che era stato licenziato “per giusta causa” – e la Cassazione oggi ha confermato la massima sanzione – nel settembre 2012 sulla base di una serie di contestazioni tra le quali quella di essersi intrattenuto con il suo cellulare a conversare su Facebook. L’accertamento – ricostruisce la sentenza 10955 della sezione Lavoro – era stato reso possibile attraverso la creazione da parte del responsabile del personale di un ‘falso profilo di donna su Facebook’. Già la Corte d’appello dell’Aquila, nel dicembre 2013, aveva ritenuto legittimo il controllo fatto sul dipendente, ritenendolo privo di “invasività”. Giudizio confermato oggi da piazza Cavour che ha bocciato il ricorso del dipendente, convalidando la legittimità dell’espulsione.

Nel dettaglio, la Cassazione parla di una “tendenziale ammissibilità dei controlli difensivi ‘occulti’, anche ad opera di personale estraneo all’organizzazione aziendale, in quanto diretti all’accertamento di comportamenti illeciti diversi dal mero inadempimento della prestazione lavorativa, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ferma comunque restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità non eccessivamente invasive e rispettose delle garanzie di libertà e dignità dei dipendenti, con le quali l’interesse del datore di lavoro al controllo e alla difesa dell’organizzazione produttiva aziendale deve contemperarsi e, in ogni caso, sempre secondo i canoni generali della correttezza e buona fede contrattuale”.

La Cassazione, a scanso di equivoci, precisa che “il datore di lavoro ha posto in essere un’attività di controllo che non ha avuto ad oggetto l’attività lavorativa più propriamente detta e il suo esatto adempimento, ma l’eventuale perpetrazione di comportamenti illeciti da parte del dipendente, poi effettivamente riscontrati e già manifestati nei giorni precedenti allorchè il lavoratore era stato sorpreso al telefono lontano dalla pressa cui era addetto, ed era stata scoperta la sua detenzione in azienda di un dispositivo elettronico utile per conversazioni via internet”.

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