racconto di Domenico Rosa
Dopo il “faticoso” anno accademico fiorentino ero tornato tra i miei monti, buttandomi alle spalle l’afa cittadina e immergendomi nel verde refrigerio delle serate abruzzesi. La monotonia della mia terra non è mai noia. Mi riabituavo con piacere alla notorietà paesana, alle partite a scopa con i giovani di un tempo e soprattutto non disdegnavo gli inviti alle degustazioni di tipici piatti che le sagre nei dintorni offrivano. Ma ahimè! proprio una di quelle sagre mi fu fatale.
Ricordo perfettamente quel 8 luglio, quattro giorni prima l’Italia aveva battuto la Germania in semifinale. L’euforia generale si mischiava ad un buon appetito che l’aria frizzante della sera favoriva. Insieme agli amici di sempre decidemmo per il menù più ricco e dopo aver alzato i calici in ossequio alla Nazionale, divorammo letteralmente antipasto e primo a base di cinghiale. Pochi istanti dopo, inaspettatamente, cominciai ad avvertire un senso di insolita pesantezza , la situazione precipitò in un istante, fui travolto da nausea e crampi. Capii che qualche fungo avariato, finito sulle succulente pappardelle, mi aveva provocato uno shock anafilattico.
Senza accorgermene mi svegliai la mattina successiva in un stanza spoglia che non era la mia. Realizzai con un certo ritardo che si trattava di una camera d’ospedale. Accanto a me, un signore dagli occhi vispi che non smetteva un attimo di gesticolare e parlare al telefono con uno spiccato accento napoletano. Mi rivolse con la mano un cenno di saluto, ricambiai. Appena smesso il cellulare si presentò: “Piacere. Verdicchio Pasquale”. In pochi minuti mi raccontò la storia della sua vita e del suo rischioso lavoro di recupero crediti in una terra difficile come la Campania. Era davvero piacevole, l’avrei ascoltato per ore. Se non fosse che a un certo punto mi ricordai che era la sera della finalissima.
Fui colto da un senso di disperazione e cominciai ad agitarmi per cercare di uscire dall’ospedale. Inutili i miei tentativi di dissuadere il personale medico di turno, non c’era niente da fare, dovevo restare almeno un’altra notte sotto osservazione. Il Sig. Pasquale vedendomi affranto, con fare rassicurante mi disse: “Mimì ma che te ne fotte dell’Italia, pensa alla salute”. A dire il vero alle sue parole un risolino mi scappò, ma di certo il mio umore non era affatto migliorato.
Chiamai i miei immediatamente e chiesi loro di raggiungermi il prima possibile con il piccolo televisore che tenevo nella mia camera. Poi rivolgendomi al compagno di sventura, che avevo visto indifferente alle mie preoccupazioni, gli chiesi se era un appassionato di calcio. Lui mi rispose di sì, ma aggiunse che della Nazionale non gliene importava un accidente. Con voce squillante esclamò: “La mia Italia è Napoli” e mi raccontò di quando, durante i mondiali del ’90 nella semifinale Argentina-Italia vista dal vivo al San Paolo, aveva tifato per la squadra di Maradona. Io rimasi sconcertato ma don Pasquale continuò dicendomi: “Vedi Mimì, la maglia della Nazionale è azzurra, perché azzurro è il colore dei Savoia. Proprio “chella” dinastia che ci ha regalato emigrazione, fame e disoccupazione. Maradona invece ci ha fatto scordare per un attimo tutti i problemi e Napoli intera quel giorno era con lui”.
Il suo modo tutto napoletano di esagerare e di ingigantire le cose me lo rendeva ancora più simpatico, per di più intuivo che nelle sue parole c’era un fondo di verità. Cominciò a spiegarmi che l’Italia esisteva da secoli e non solo dal 1861, quando alcune persone avevano voluto unire una casa divisa in più stanze, in unico salone. L’Italia a cui faceva riferimento era ricca di storia e di cultura proprio grazie alle sue differenze, non fatiscente e decadente come quella di adesso. Ad essere sinceri la lezione era interessante, ma nel frattempo mia madre era arrivata con la Tv e i mie pensieri tornarono esclusivamente alla partita, corruppi un infermiere per procurarmi un paio di birre, le bevemmo con Pasquale e gli strappai la promessa che quella sera avrebbe tifato l’Italia con me.
Dopo la bevuta, in attesa del fischio di inizio, parlammo ancora…della situazione politica e dello scandalo di calciopoli, riflettendo sul fatto che in Italia non si dimetteva mai nessuno. Gli chiesi un po’ provocatoriamente se anche questo malcostume era da attribuire all’unità d’Italia. Lui mi guardò come Geppetto avrebbe guardato Pinocchio e disse semplicemente: “O cummannà è meglj r’o fott’r” (Comandare è meglio di fare all’amore). Pasquale mi spiazzò e a distanza di anni più del gol vittoria di Grosso, ricordo lui, su quel letto d’ospedale come un professore ex cathedra.
A me risulta invece che il maggiordomo di Napoleone andò dallo stesso mentre faceva i piani di battaglia coni suoi generali, qui la cavalleria, qui i cannoni e sto maggiordomo Napoletano lo chiamava a bassa voce e le diceva Napuliò guarda che Giuseppina e Napoleone lo stoppava e ricominciava la tattica di guerra dopo un paio di volte il maggiordomo ritornò da Napoleone e sussurrò ancora Napuliò vedi che Giuseppina, niente e di nuovo Napuliò vedi che Giuseppina fotte e di colpo Napoleone gli rispose con tono alto ho cummann è chiù doce do fottere, non mi sembra che occorri la traduzione.
Bellissimo…tutto!!