Letteratura, Domenico Rosa al Premio Firenze con uno scritto sulla periferia

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Anche quest’anno il giornalista Domenico Rosa ottiene la segnalazione d’onore al Premio Firenze nella sezione racconti che arriva alla sua XXXII edizione. Lo scritto, che pubblichiamo di seguito, descrive la realtà ‘da bar’ che si vive alla periferia di Firenze dove il tempo sembra essersi fermato a qualche decennio fa. Una storia divertente da grate panciute e muri screpolati anni ’60 ispirata alle gesta dell’amico Gino Pacella in arte Orazio.
Nel leggerla senti in bocca il luppolo e tra le mani le carte. Un bozzetto di vita paesana con a confronto una generazione anziana e saggia e una gioventù arrogante.

Gino e la volpe

Da Mantignano arrivava a piedi fino a piazza dell’Isolotto ogni santo giorno. La sua fama di campione di scopa lo precedeva in ogni vecchio bar di Firenze. Lui è il grande Gino, uno degli ultimi veri fiorentini ancora viventi. Uomo di un tempo antico, senza paura, sempre pronto a ridere e a scherzare.

Se l’ironia è davvero sinonimo di intelligenza Gino ne ha in sovrabbondanza. Al Bar dello sport, praticamente il suo regno, non si fa altro che narrare le sue imprese. Quando era piccolo si era guadagnato il soprannome di Orazio per via di una fiaba che aveva scritto a scuola: ‘Orazio nello spazio’. Il protagonista dopo un lungo viaggio arrivava sulla luna. Una volta sbarcato incontrava un extraterrestre al quale chiedeva: “scusi, che ore sono?” e l’uomo lunare: “qui è sempre l’una”.

Ancora oggi gli amici più stretti lo chiamano Orazio. Quando gioca a carte attorno al suo tavolo si crea un capannello di gente. Tutti incuriositi dal campione. Se fa scopa urla come un forsennato con le mani al cielo: “Batigol!”. Il pubblico esplode ad ogni suo show.
Abitudinario come tutti i grandi geni, una volta a settimana va dall’amico barbiere Alberigo: ‘l’unico coiffeur eterosessuale’.

Al bar non si smette mai di raccontare quella volta di Rico il parrucchiere che al passaggio di un carro funebre si portò furtivamente la mano destra nelle parti intime. La scena non sfuggì a Gino che col suo solito stile lo fulminò: “Oh bischero! Toccati la testa, l’è lo stesso”. I testimoni giurano di aver sentito ridere da dentro la bara.

Prima di recarsi al suo bar, Orazio attraversa il parco delle Cascine dalla passerella fino al Ponte dell’Indiano. Spesso incontra o meglio incontrava l’attore Carlo Monni che col bel tempo era solito passeggiare sull’argine dell’Arno a torso nudo. Da anni ormai si conoscevano cosicché Gino poteva permettersi di buggerare anche lui. L’ultima volta che si videro era l’estate del 2012 pochi mesi prima che l’attore morisse. Carlo sempre identico: capelli lunghi, barbone, senza maglietta e con in bocca l’immancabile sigaretta. Gino appena se lo trovò di fronte non si trattenne: “Sei bel e pronto per l’isola dei famosi”. Carlo senza pensarci tanto su lo spedì all’altro paese: “Vacci te coi quei grulli”. E giù a ridere prima di abbracciarsi.

Al bar però ultimamente le cose non andavano per il verso giusto. Un gruppo di giovani si era messo in testa di conquistare il regno di Gino e dei suoi amici, fatto di battute, ‘bischerate’ e birra Peroni. Il successo dei nuovi arrivati doveva passare dalla sfida a carte. Solo così avrebbero avuto diritto a sedere nei primi tavoli del Bar dello Sport, quelli dei clienti che lo frequentavano da 30 anni. Il capo della gang, Gianluigi, il playboy di via Torcicoda, lanciò il guanto al vecchio Gino. Le carte diceva sempre il consumato campione sono quaranta puttane. Mai così vero come quella volta. Non ebbe in cinque mani una carta superiore al sei. La debacle fu inevitabile. Al danno si aggiunse la beffa quando il vincitore, chiamato Bimbo per via del suo viso da ragazzino, si mise a schernire il re della scopa. “Bellino. Va’ a portare la pancia al bancone”.

Gino, non rispose alla provocazione, lasciò correre, tirò fuori 5 euro e pagò le due birre, un euro di mancia al vecchio Simone.

Ma si sa, la superbia va a cavallo e torna a piedi. Due giorni dopo, con la tracotanza che solo i giovani sanno avere, Bimbo si rivolse a Gino chiamandolo col soprannome: “Orazio, sei pronto a riperdere?”.

Gino si guardò intorno e rivolgendosi agli altri avventori indicò con l’indice della mano destra lo spaccone: “Mi ricorda la volpe che ho a casa sopra il mobile della cucina”. Bimbo non sembrò interessato al discorso, prese le carte e si sedette di fronte al più forte giocatore di tutta la Toscana.

La fortuna del principiante come era prevedibile questa volta l’abbandonò. Gino, grazie alla sua abilità e al metodo mnemonico del 48, che permetteva di conoscere le carte dell’avversario all’ultima mano, stracciò il playboy con un secco 15 a 3.
Tornò con lo sguardo agli amici di sempre e riprese il discorso di prima: “Ero fuori e mi chiamò la mamma tutta allarmata: ‘il tacchino non c’è più’. La poveretta l’aveva allevato per un anno con tanta cura, dandogli solo cibo sano e naturale. Faceva più di 5 chili. Sentendola disperata mi precipitai a casa e corsi subito a fare un’ispezione nel recinto per vedere se l’avevano rubato. Poco distante invece trovai la carcassa tutta sventrata. Nessun furto. Un animale selvatico aveva fatto visita al nostro piccolo allevamento. Pensai che una volta imparata la strada l’animale sarebbe tornato con la speranza stavolta di trovare una papera (risate fragorose della platea). Misi all’ingresso una delle mie tagliole e l’indomani trovai l’assassina del tacchino. Una vecchia volpe dal pelo liscio e setoso. Portai la bestia a Scandicci e me la feci imbalsamare da un caro amico, vero maestro in questo genere di operazioni”.
Ad un tratto si interrompe. Si rivolge al barista: “Simone porta una birra! ci pensa il mio amico Bimbo a pagare”. Alberigo incuriosito gli chiede: “Allora!! la volpe?”. E Gino: “Vero la volpe. Un giorno dovete venire a casa a vederla: sembra viva, di una bellezza incredibile. A volte credetemi non riesco a non accarezzarla e tra una lisciata e l’altra penso: ci sarà sempre qualcuno a cui dare una lezione”.

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