Isis annuncia di possedere una “bomba sporca”. Minaccia possibile, non ipotesi remota

Dirty-Bombs

 

Agli inizi di ottobre è stato affrontato il problema di un possibile impiego da parte dell’ISIS di IED (Improvised Explosive Device) “sporchi”, presentandolo come una minaccia possibile e non un’ipotesi remota. L’ISIS e la minaccia di attentati terroristici “sporchi”, il pericolo è reale

A distanza di due mesi un’Agenzia stampa Nazionale (AGI, 1 dic.) ci informa che “un jihadista britannico ha rivendicato sul web che Isis sarebbe in possesso di una cosiddetta “bomba sporca”, realizzata con 40 kg di uranio trafugato dai depositi dell’università di Mosul”, notizia riportata anche dal “ Daily Mail”.

Effettivamente, il “The Indipendent” a luglio annunciava che l’Ambasciatore Mohamed Ali Alhakim presso le Nazioni Unite aveva informato che gli jihadisti avevano trafugato materiali nucleari utilizzati per la ricerca scientifica presso una università nel nord dell’Iraq. In particolare si parlava di quasi 40 chilogrammi (88 libbre) di derivati di uranio che erano conservati giustappunto a Mosul.

Da anni si parla di possibili “IED sporchi” ma fino ad ora non si aveva la certezza che i gruppi eversivi potessero disporre di sostanze non convenzionali per incrementare gli effetti convenzionali degli ordigni. La notizia, invece, del materiale radioattivo trafugato a Mosul rende concreta la possibilità che nel mondo esistono possibili fonti di approvvigionamento di agenti NBC (Nucleari, Biologici e Chimici) facilmente accessibili dalle le forze jihadiste. Agenti biologici come l’antrace o il botulino prodotto nei segreti laboratori di Saddam Hussein. Sostanze radioattive provenienti dagli arsenali nucleari della disciolta Unione Sovietica od anche scorie radiologiche per uso sanitario accantonate negli scantinati di ospedali distrutti in Iraq, in Siria ed anche in Bosnia Herzegovina. Aggressivi chimici contrabbandati verso l’Occidente passando da Paesi del Terzo Mondo, fra quelli che notoriamente rappresentano l’approdo finale dei rifiuti tossici provenienti dalle nazioni industrializzate o dai vecchi arsenali militari ormai in disuso.

Un “bomba sporca”, infatti, non è altro che un ordigno realizzato con esplosivo convenzionale circondato da uno strato più o meno consistente di scorie radioattive anche recuperate da vecchie macchine a raggi X per uso medico o con l’aggiunta di sostanze chimiche letali anche di uso civile. Materiale sicuramente non in grado di innescare un’esplosione nucleare od una rilevante nube tossica chimica, ma capace di far propagare un fall-out contaminando vaste aree. Un IED che avrebbe effetti devastanti se fatto detonare in una grande città.

Attacchi poco probabili in tempi passati per le difficoltà logistiche di reperimento dei materiali necessari. Più verosimili, ora, nel momento che le forze dell’ISIS possono disporre di siti di approvvigionamento di materiali non convenzionali e possono fare riferimento sulla disponibilità di simpatizzanti “occidentali” che potrebbero possedere adeguate professionalità specifiche. Condizioni che aumentano esponenzialmente il rischio che quello che un tempo era considerato poco probabile e che, oggi, invece, è qualcosa di fattibile.

Peraltro, per ottenere effetti devastanti non occorrono grosse quantità di materiale. Qualche litro di aggressivo chimico o qualche chilogrammo di sostanze radioattive sono sufficienti ad aumentare in maniera esponenziale la potenzialità di un IED.

Alla minaccia di IED “sporcati” con materiale radioattivo o chimico si potrebbe ripresentare sullo scenario mondiale anche la minaccia batteriologica. Qualcosa che ha origini lontane nel tempo, quando a metà del diciottesimo secolo coperte infettate con il vaiolo furono distribuite ai pellirosse e gli inglesi, in Nuova Zelanda, resero disponibili per i Maori gruppi di prostitute infettate dalla sifilide. Oppure, quando in Cambogia e nella Corea del Nord fu fatto ricorso alla “pioggia gialla” ottenuta con una micotossina ricavata dal fungo Fusarium. Oggi, potremmo avere kamikaze infettati da malattie virali ad elevata propagazione, tipo Ebola e vaiolo.

L’allarme rilanciato in questi giorni dovrebbe, quindi, rappresentare materia di attento monitoraggio a livello istituzionale in quanto non più argomento immaginario ma eventualità possibile. Potrebbe, infatti, essere già iniziata la fase di un terrorismo non violento, ma subdolo, difficile da fronteggiare se non si è preparati a farlo.

Innanzi tutto, sarebbe auspicabile la gestione di un’informazione ufficiale a favore dell’obiettivo primario di ogni attacco terroristico, la popolazione civile, proponendo, se del caso, modelli di difesa mutuati in chiave moderna da quanto attuò Israele durante la guerra del Golfo quando era minacciata dagli attacchi non convenzionali di Saddam Hussein.

Non diffondendo panico, ma gestendo il problema giorno dopo giorno con la massima trasparenza, affidandosi a campagne di comunicazione costruttive mirate a divulgare le procedure di difesa e a far accettare dalla gente eventuali misure restrittive anche della libertà personale, che potrebbero essere messe in atto a garanzia della sicurezza collettiva.

Iniziative coordinate a livello istituzionale, che concorrerebbero sicuramente ad abbattere il successo della campagna mediatica con la quale il Califfato propone la minaccia terroristica non convenzionale e nello stesso tempo aiuterebbero a sensibilizzare la popolazione in modo che, all’occorrenza, sia in grado di fronteggiare il pericolo.

Fernando Termentini, 2 dic 2014,