26 ottobre – L’art. 18 era solo l’antipasto. Preannunciato dalle dichiarazioni rilasciate ad agosto da Renzi “l’articolo 18 è un totem ideologico, è giusto riscrivere lo Statuto dei lavoratori.“, Alfano quattro giorni fa, davanti alla Direzione Nazionale del NCD, ha scoperto le carte “Noi sosteniamo fino in fondo la strada di cambiare lo Statuto dei lavoratori, dentro cui c’e’ anche l’articolo 18. Superiamo tutto lo Statuto dei lavoratori”, concetto ribadito oggi “Lo Statuto dei Lavoratori – ha ricordato – è stato approvato cinque mesi prima che io nascessi. Io sono nato nell’ottobre del 1970 e lo statuto dei lavoratori è stato approvato nel maggio del 1970… dal 1970 a oggi, è cambiato tutto: sono cambiate le relazioni industriali, il modo di produrre in Italia, la legislazione europea, è cambiato tutto in Italia e non è possibile mantenere le regole per quel mercato del lavoro che non è più quello di oggi“.
Una prece per lo Statuto, quindi. Ma prima di seppellirlo facciamoci una domanda: la legge n. 300 del 20.5.1970 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento” (tale è il suo nome ufficiale), anche alla luce delle modifiche successive attuate, si può e si deve realmente ritenere superato? La risposta corretta è: dipende.
Lo Statuto nasce sull’onda delle lotte sindacali degli anni ’60, lotte che avevano cercato di contrastare l’arbitrio totale con il quale erano gestiti negli anni ’50 e primi anni ’60 i rapporti fra datore di lavoro ed operai, da una parte, e di imporre e tutelare la sindacalizzazione come strumento di aggregazione per la creazione di una forza capace di veicolare le istanze dei lavoratori per condizioni di lavoro migliori e più dignitose, dall’altra. Come ci ricorda la giornalista Lucrezia dell’Arti “Al tempo dell’approvazione della legge (1970) nessuno faceva caso all’articolo 18. L’articolo più importante sembrava il 28, «Repressione della condotta antisindacale». Poi il 2 (le guardie giurate vigilino sul patrimonio aziendale e non sul lavoro operaio), il 4 (tv a circuito interno), il 5 (medici fiscali dell’azienda sostituiti dai «servizi ispettivi degli istituti previdenziali»)” (articolo qui).
La CGIL all’epoca della sua promulgazione dichiarò: “Con lo Statuto di oggi i diritti individuali dei lavoratori e delle lavoratrici e la piena cittadinanza del sindacato sono garantiti anche nei luoghi di lavoro. La legge n. 300 porta la Costituzione dentro le fabbriche ed era attesa fin dal 1952 quando il terzo Congresso Nazionale della CGIL approvava una bozza di statuto presentata del segretario Giuseppe Di Vittorio: lo “Statuto dei diritti democratici dei lavoratori nei luoghi di lavoro”.
A proposito di questa bozza di statuto vale la pena di leggere con attenzione ed integralmente l’articolo di Giuseppe Di Vittorio, fra gli esponenti più autorevoli del sindacato italiano del secondo dopoguerra italiano, scritto nel 1952, all’indomani della sua proposta presentata al Congresso dei Sindacati chimici: La proposta da me annunciata al recente Congresso dei Sindacati chimici – di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende – ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria.
Il Congresso della Camera del Lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri sopratutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione.Le prime reazioni padronali alla nostra proposta sembrano, invece, per lo meno incomprensibili. «Il Globo», infatti – giornale notoriamente ispirato dagli ambienti industriali – pretende che io, avanzando la proposta dello Statuto, avrei dimenticato «troppe cose». Che cosa? Ecco: «che gli stabilimenti non sono proprietà pubblica ma ambienti privati di lavoro nei quali l’attività di tutti, dirigenti e imprenditori compresi, è vincolata e coordinata al fine produttivo da raggiungere»; che esistono i contratti di lavoro, «nei quali sono previsti i doveri e i diritti dei lavoratori nell’ambito del rapporto contrattuale»; che esistono le Commissioni interne, ecc. ecc. è giusto. Tutte le cose che ricorda «Il Globo» esistono; e nessuno lo ignora.
Il giornale degli industriali, però, dimentica un’altra cosa, che pure esiste: è la Costituzione della Repubblica, la quale garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda.
Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile – e agissero in conseguenza – la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere.
Il fatto è, invece, che numerosi padroni si comportano nei confronti dei propri dipendenti come se la Costituzione non esistesse. Si direbbe che la parte più retriva e reazionaria del padronato (la quale non ha mai approvato la Costituzione, ma l’ha subita, a suo tempo, solo per timore del «peggio»), mentre trama per sopprimerla, l’abolisce, intanto, all’interno delle aziende. L’opinione pubblica ignora, forse, che in numerose fabbriche s’è istaurato un regime d’intimidazione e di terrore di tipo fascista che umilia e offende i lavoratori.
I padroni e i loro agenti sono giunti al punto d’impedire ai lavoratori di leggere il giornale di propria scelta e di esprimere una propria opinione ai compagni di lavoro, nelle ore di riposo, sotto pena di licenziamento in tronco. Si è giunti ad impedire ai collettori sindacali di raccogliere i contributi o distribuire le tessere sindacali, durante il pasto o prima e dopo l’orario di lavoro. Se durante la sospensione del lavoro, l’operaio legge un giornale non gradito al padrone, o l’offre a un collega, rischia di essere licenziato. Si è osato licenziare in tronco un membro di Commissione Interna perché durante la colazione aveva fatto una comunicazione alle maestranze. Si pretende persino che la Commissione Interna sottoponga alla censura preventiva del padrone il testo delle comunicazioni da fare ai lavoratori. Peggio ancora: si è giunti all’infamia di perquisire gli operai all’entrata della fabbrica, per assicurarsi che non portino giornali o altri stampati invisi al padrone. Tutto questo è intollerabile. E tutto questo non è fatto a caso, né per semplice cattiveria. Tutto questo è fatto per calcolo; è fatto per affermare e ribadire a ogni istante, in ogni modo, l’assolutismo padronale onde piegare il lavoratore a uno sforzo sempre più intenso, a un ritmo di lavoro sempre più infernale, alla fatica più massacrante, sotto la minaccia costante del licenziamento. E tutti sono in grado di misurare la gravità di questa minaccia, in un Paese di disoccupazione vasta e pertinente come il nostro. È un fatto che l’instaurazione di questo assolutismo padronale nelle fabbriche è accompagnata da un aumento crescente del ritmo del lavoro.
Il supersfruttamento dei lavoratori è giunto a un tale punto da determinare un aumento impressionante degli infortuni sul lavoro (anche mortali) e delle malattie professionali, come abbiamo ripetutamente documentato. Soltanto nelle aziende della Montecatini abbiamo avuto 35 morti per infortuni in un anno! Questa situazione non è tollerabile.
Bisogna ripristinare i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende e porre un limite a queste forme micidiali di supersfruttamento. Intendiamoci bene: noi non siamo contro la necessaria disciplina in ogni lavoro; ma deve trattarsi della disciplina normale, umana. Non contestiamo affatto che il lavoratore, durante le ore di lavoro, abbia lo stretto dovere di adempiere al suo compito professionale. E noi sappiamo bene che la generalità dei lavoratori concepisce l’adempimento scrupoloso del proprio dovere come primo fondamento della propria dignità professionale. Ma fuori delle ore di lavoro durante il pasto, prima dell’inizio del lavoro e dopo la cessazione, i lavoratori sono, anche all’interno dell’azienda, liberi cittadini, in possesso di tutti i diritti garantiti agli altri cittadini, per cui hanno l’incontestabile diritto di parlare, di esprimere liberamente le loro opinioni, di distribuire le tessere della propria organizzazione, di collettare i contributi sindacali, ecc. ecc., così come hanno il diritto di farlo fuori della fabbrica.
Il «vincolo contrattuale» con l’azienda – di cui parla «Il Globo» – è un vincolo di lavoro, non di coscienza. Ottenuto il lavoro dovuto dall’operaio, il padrone non deve pretendere null’altro. Naturalmente, le minacce e gli abusi di cui sono vittime quotidianamente numerosi lavoratori, danno spesso luogo a proteste collettive, ad agitazioni, a scioperi. Se si continuasse ad andare avanti nel senso deplorato, queste agitazioni sarebbero destinate a moltiplicarsi e a generalizzarsi, dato che la situazione è giunta al punto estremo della sopportabilità.
Dalle fabbriche e da altri luoghi di lavoro si leva una protesta unanime, accorata, come sorgente da un bisogno di respirare, di sentirsi liberi, anche all’interno delle aziende. La nostra proposta tende a risolvere la questione in modo pacifico e normale, mediante l’adozione d’uno Statuto che, ribadendo i diritti imprescrittibili dei lavoratori, non dia luogo né agli abusi lamentati, né alle agitazioni che ne conseguono. E poiché si tratta d’un interesse vitale e generale di tutti i lavoratori, senza distinzioni di correnti, riteniamo perfettamente possibile un accordo con le altre organizzazioni sindacali, sia nella formulazione dello Statuto che propugniamo, sia nell’azione da svolgere per ottenerne l’adozione. Questo era il segretario della CGIL all’epoca…
Ora è possibile chiarire la risposta data alla nostra domanda: lo Statuto dei lavoratori può ritenersi superato ed obsoleto solo ed in quanto sia ritenuta superata ed obsoleta la nostra Costituzione e la sua visione del lavoro,già esaminata quando abbiamo affrontato il tema dei minijob. Nell’ottica attuale di rivincita del liberismo economico e sociale è evidente che una legge che limita il potere del datore di lavoro di gestire all’interno della propria azienda i lavoratori ed i loro diritti come meglio gli aggrada, spostandoli, demanzionandoli, eliminando ferie e permessi o spezzettando il lavoro in orari incompatibili con una vita privata del dipendente (tutti fenomeni ben presenti a chi attualmente svolge un’attività subordinata, sia temporanea che a tempo indeterminato) è vista come un intollerabile ostacolo all’organizzazione interna, esattamente come lo vedevano allora i datori di lavoro degli anni 50/60. Ciò non toglie e non deve far dimenticare che, fino a prova contraria o fino a che non sarà smantellata nei suoi principi fondanti, la Costituzione e la sua previsione di un lavoro dignitoso e dignitosamente pagato, che permetta l’esplicazione della personalità del lavoratore, sia dentro che fuori dall’ambiente di lavoro, e la sua partecipazione alla vita sociale, economica e politica della Nazione, prevale e deve prevalere su ogni tentativo di trasformare il lavoratore in una “merce lavoro” liberamente prezzabile ed utilizzabile.
Sembra di oggi il monito che lanciò Donat Cattin alla Camera dei Deputati il 14.5.70: “La più perfetta Costituzione ha valore nella misura in cui vi sia un costume civile democratico e in cui vi siano forze capaci di dare ad essa concreta attuazione in tutti i suoi contenuti democratici. Quando invece si modificano i rapporti di forza, le tendenze e il costume democratico, anche la più perfetta Costituzione può finire col rimanere svuotata e inapplicata.“
Diversamente di quel che pensa Alfano, quindi, lo Statuto dei lavoratori è vivo e deve rimanere tale, quanto più si fanno pressanti, in nome dell’emergenza occupazionale ed economica, le spinte a smantellare i diritti acquisiti, perché “non ce li possiamo più permettere”, in quanto espressione ed applicazione nell’ambiente di lavoro delle norme costituzionali fondamentali. D’altronde, come ha dimostrato nel suo articolo “Stop structural reforms, start public investments” De Grauwe, la favola che la colpa del mancato recupero economico post crisi sia da addebitare alla rigidità strutturale dei Paesi colpiti (e quindi bisogna intervenire sul mercato del lavoro, flessibilizzandolo, permettendo l’espulsione libera del lavoratore, ecc.) non regge all’esame dei dati ed è quindi solo una scusa per fare le riforme che vuole la politica legata alla finanza ed un certo tipo di imprenditoria. Se ci liberassimo da ricette economiche errate e controproducenti non ci sarebbe alcun bisogno di colpire diritti e welfare dei cittadini. Ma questo è esattamente il punto…
di Luigi Avv. Pecchioli per Riscossa italiana