di Giuliano Augusto
21 ottobre – Parafrasando Marx, la tecnocrazia europea, i vari governanti liberal-liberisti, gli ex comunisti convertiti al Libero Mercato, e i soliti utili idioti che non mancano mai, lamentano che “uno spettro si aggira per l’Europa”. Uno spettro che chiamano “Populismo” e che non fa dormire sonni tranquilli a quanti, da decenni, sognano una Europa Federale all’interno della quale i singoli Paesi cedano quasi tutta la propria sovranità ad una autorità onnicomprensiva ed invasiva dotata dei più vasti poteri.
E’ il vecchio progetto vagheggiato da Altiero Spinelli, quando era ospite delle patrie galere in quel di Ventotene. E soprattutto di un autentico criminale quale fu Jean Monnet che, nel secondo dopoguerra, ebbe l’incarico, in virtù delle proprie relazioni con l’Alta Finanza anglofona, di gestire i cordoni della borsa per la distribuzione dei soldi del Piano Marshall. A differenza di Spinelli, la cui influenza pratica si limitò al palcoscenico e alle belle parole, Monnet svolse una influenza fattuale e nefasta pur non avendo mai amato molto l’idea di mettersi in mostra, preferendo semmai agire dietro le quinte.
I vari Edward Heat, Giscard d’Estaing ed Helmuth Schmidt lo ebbero e lo riconobbero come loro ispiratore. Monnet, con Spinelli in Italia, è considerato dagli esponenti della canaglia liberista, imbevuta da pulsioni sovra-nazionali, come un nume tutelare al cui esempio ispirarsi. Già, l’esempio. Bell’esempio. Basterebbe pensare alle manovre che Monnet mise in atto nel maggio 1968 per fare cadere De Gaulle, finanziando a piene mani, unitamente al Mossad israeliano, i trotzkisti internazionalisti (!) della Gauche Proletarienne, il gruppo più consistente impegnato nelle rivolte di piazza. Questo perché De Gaulle, si era detto contro l’Europa Federale, schierandosi al contrario per una Europa Confederale, quella da lui definita “L’Europa delle Patrie”. Una colpa imperdonabile per la tecnocrazia.
L’anno dopo, e sembra un paradosso, De Gaulle si dimise dopo aver perso un referendum consultivo sul nuovo assetto regionale della Francia. Questo per sottolineare che lo scontro tra tendenze accentratrici e centrifughe è una costante della storia europea. I fautori dell’Unione Europea (all’epoca un semplice Mercato europeo comune e poi Comunità economica europea) hanno basato i propri disegni (loro li chiamavano e li chiamano sogni) sulla considerazione che il mondo stava diventando sempre più stretto e che nuovi soggetti (tipo la Cina) stavano spuntando all’orizzonte e che Paesi, seppure economicamente forti come la Francia e la Germania, da soli non ce la potevano fare.
A questa impostazione economica, ne veniva aggiunta un’altra più politico-istituzionale e riferita all’esempio federale degli Stati Uniti. Se lo hanno fatto oltre Atlantico, vaneggiava il francese anglofono, perché non si potrebbe fare in Europa. Il vecchio cialtrone ignorava volutamente il fatto semplicissimo che gli Usa sono uno Stato costruito ex novo da immigrati che avevano abbandonato l’Europa e che una volta nati decisero di adottare l’inglese come lingua unica ed ufficiale. Una novità che anche gli immigrati tedeschi, il gruppo più consistente, finirono per accettare.
In Europa vi è una realtà completamente differente. Anzi opposta. Ogni Paese è caratterizzato infatti da una lingua propria che è il risultato di un processo millenario. Ogni Paese è a sua volta caratterizzato da Regioni, ognuna con proprie peculiarità di usi e di costumi, tra i quali pure quelli alimentari. Molte sono dotate di dialetti che in diversi casi sono delle vere e proprie lingue. Come si possa e si voglia ridurre tutto questo sotto il potere di un Moloch asfissiante appariva come un Eden alle anime belle, prontissime ad applaudire alle soluzioni semplicistiche basate sulla bontà innata dell’uomo e sulla facilità di superare le diversità nazionali. Linguistiche, culturali, economiche e religiose.
Oggi, a fronte di una recessione economica senza freni e, al tempo stesso, in presenza di una struttura tecnocratica che da Bruxelles pretende di essere dotata di sempre maggiori poteri, sale alta la rabbia e la protesta dei popoli d’Europa. Il successo politico ed elettorale di forze critiche dell’Europa per come è stata congegnata e per come si è attuata, ne è la più evidente dimostrazione.
Nasce la protesta contro un Euro che specie per l’Italia, in conseguenza di un rapporto di cambio euro-lira scelto da Prodi, si è rivelato essere disastroso.
Sale la protesta contro le banche, che pur essendo gonfie di denaro grazie ai soldi regalati dalla Bce, non fanno credito alle piccole imprese e continuano invece a speculare e comprare titoli di Stato. E’ l’Europa profonda, l’Italia profonda, che protesta ed alza la voce. L’accusa di populismo diventa così l’insulto datato e francamente ridicolo da parte di quegli stessi ambienti che cianciano di “volontà popolare” ma che in realtà non hanno alcuna voglia che essa possa contare qualcosa, volendo soltanto che i cittadini ratifichino provvedimenti per loro dannosi e sulla cui formazione non hanno avuto voce in capitolo.