14 ottobre – È «deprimente» constatare che se la maggioranza della Bce non avesse seguito le decisioni di Mario Draghi, ma le obiezioni dei tedeschi, a quest’ora «l’euro non esisterebbe più». Ed è altrettanto avvilente, per un politico di razza come Joschka Fischer, ammettere che il suo Paese sia attualmente il più grande pericolo per l’Europa.
«Se non cadono i tabù tedeschi», ossia la messa in comune dei debiti e una maggiore integrazione finanziaria, e se non si esce dallo stallo provocato dalla politica dei «piccoli passi», tanto cara ad Angela Merkel e bollata come pragmatismo «pigro» e «difensivo», l’epilogo tragico è certo.
«Bisogna prepararsi seriamente alla fine del progetto europeo» scrive l’ex ministro degli Esteri tedesco nel suo nuovo libro dal titolo eloquente, «Scheitert Europa?» («L’Europa fallisce?» Kiepenheuer & Witsch) che è anzitutto un durissimo atto di accusa contro la Germania della Cancelliera.
L’ex enfant prodige dei Verdi tedeschi, figura chiave dei governi Schroeder, traccia un bilancio amaro della crisi, che ha messo in luce una verità fondamentale sulla moneta unica: era stata progettata «per il bel tempo».
L’uragano della bolla immobiliare americana e lo scoppiare della Grande crisi l’hanno colta impreparata. Ma se lo tsunami da subprime ha preso piede nel Vecchio continente, è anche per l’incapacità di molti politici di capirne la portata. Un anno dopo il crash, il ministro delle Finanze Peer Steinbrueck continuava a parlare di «crisi americana».
Senza accorgersi che «i lembi del suo frac stavano già prendendo fuoco», scrive Fischer, che alle sue spalle si era accesa la miccia greca. E nell’autunno caldo del 2008, Angela Merkel si rese responsabile di una decisione che contribuì secondo l’ex ministro degli Esteri ad accelerare il disastro finanziario: rifiutò una soluzione comune europea sin dall’inizio, inaugurò il triste filone dell’«ognun per sé».
Fischer ritiene inoltre devastante l’austerità «alla tedesca», perché ha imposto ai Paesi del Sud Europa una deflazione interna dei salari e dei prezzi che avrebbe ora bisogno di essere mitigata da una «soluzione comune per tutti i debiti pregressi». Bloccando quest’opzione, Berlino sta condannando il Sud Europa alla «trappola» della spirale dei debiti, cioè a non uscire mai dalla crisi. E il politico accusa il suo Paese di avere la memoria troppo corta, in questo accanimento pedagogico contro i partner meridionali.
«Sorprendente», scrive, che la Germania abbia dimenticato la storica Conferenza di Londra in cui l’Europa nel 1952 le abbonò tutti i debiti. Senza quel regalo, «non avremmo riconquistato la credibilità e l’accesso ai mercati», la Germania «non si sarebbe ripresa e non avremmo avuto il miracolo economico».
All’inizio della crisi, osserva Fischer, l’Europa si è trovata nella situazione di un viandante che attraversando il fiume viene travolto da una piena. Ha tre opzioni: tornare indietro, restare fermo o andare avanti. Guidata dalla Germania, leader riluttante, Paese egemone «suo malgrado», l’Europa ha scelto la seconda opzione, di restare dov’era. Merkel ha delegato al «governo sostitutivo dell’eurozona», come Fischer chiama la Bce, l’onere del salvataggio. Ma si tratta di una soluzione, alla lunga, destinata a fallire.
Né Schmidt, né Kohl, è l’affondo finale di Fischer, avrebbero reagito in modo così «indeciso» e «con lo sguardo rivolto all’indietro» alla crisi come la Cancelliera: avrebbero anzi approfittato dell’impasse per fare un altro passo importante verso l’integrazione europea.
Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Stampa – che ringraziamo