Luciano Barra Caracciolo
Euro e (o?) democrazia costituzionale
Casa editrice Dike Giuridica
Nel saggio si affronta in modo essenzialmente divulgativo, rivolto anche ai non “addetti” in materia di economia e diritto, la complessa vicenda storica del “vincolo esterno”, culminata nell’adesione italiana all’euro. Muovendo dalla individuazione della tipologia di capitalismo accolta in Costituzione, tutt’ora un modello programmatico vincolante per le istituzioni democratiche, cerca di spiegare le ragioni storiche e gli strumenti giuridici ed economici che sottostanno alla scelta della moneta unica, evidenziando le contraddizioni che sono alla base dell’attuale crisi.
INTERVISTA A LUCIANO BARRA CARACCIOLO, VENERDI’ 26 SETTEMBRE 2014 (a cura di Luca Balduzzi)
L’introduzione di una moneta comune per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, sotto la responsabilità di un istituto bancario comune, era veramente il solo primo passo possibile verso quella successiva unione anche politica (gli “Stati uniti d’Europa”) immaginata già da Eugenio Colorni, Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli fin dal Manifesto di Ventotene del giugno del 1941?
Per rispondere al quesito in quanto storicamente connotato, occorrerebbe riferirsi all’effettivo contenuto ideologico ed economico degli obiettivi del Manifesto di Ventotene: questo concepì l’Europa federale come progressione verso una federazione mondiale, vista come strumento ultimo per garantire la perenne pace, appunto, mondiale. Ma, a condizione che in tutto il mondo fosse garantito il liberoscambismo limitatore delle politiche centralizzate e “monopolistiche” degli Stati nazionali (e guerrafondai), politiche neutralizzabili da un libero mercato caratterizzato da libera circolazione di merci e capitali.
In questo contesto, l’integrazione era vista come “negativa”, cioè basata su libertà economiche alternative alle politiche statali, e non come riproduzione a livello continentale delle strutture degli Stati (e del loro, al tempo nascente, welfare di cura degli interessi genenrali dei propri cittadini).
Da ciò la perfetta corrispondenza di tale visione liberista, -che parte dalla pace e individua ogni minaccia ad essa negli Stati, e ogni soluzione nel “libero mercato” contro interessi nazionali e “sezionali” (cioè dei lavoratori organizzati in sinidacati)- con uno strumento monetario che privasse con immediatezza gli Stati della sovranità politico-fiscale legata alla emissione della moneta. E da qui, dunque, si trascina la facile equazione (transitiva) euro= pace.
Ma questa analisi, e retrostante ideologia, sono viziate alla radice da una duplice erroneità di prospettiva, anzitutto economica e poi storico-costituzionale: in effetti il liberoscambismo non porta affatto alla pace bensì a frequenti conflitti “ineguali”, tipicamente le guerre coloniali (“le politiche delle cannoniere”), e, peggio, a conflitti tra concorrenti imperialismi; questi ultimi, semmai, si contrappongono agli Stati in quanto entità che tentano di riaffermare l’indipendenza nazionale, cioè la sovranità del proprio popolo, intesa come perseguimento del suo benessere.
In secondo luogo, gli Stati nazionali divengono, contro la “ipotesi” di Ventotene, i veri ed efficienti garanti della pace con l’affermarsi delle Costituzioni democratiche del secondo dopoguerra, che contengono clausole che autolimitano la sovranità e ripudiano ogni forma di guerra di aggressione all’indipendenza di altre nazioni.
Insomma, da Ventotene non era difficile arrivare ad un’Unione fondata (principalmente se non esclusivamente) sulla moneta.
Da altre prospettive storico-economiche, che avessero tenuto conto della trasformazione della sovranità nell’accezione democratica, a seguito delle Costituzioni dei diritti sociali nate dall’antifascimo, si poteva invece giungere a diverse soluzioni: cioè a soluzioni più consensuali e condivise nel comune sentire dei popoli (al contrario della moneta e delle alchimie finanziarie e fiscali che si accompagnano, nella tradizione del gold-standard, all’impostazione liberoscambista a antistatalista dell’UE-UEM).
Nel nostro paese, la ratifica del Trattato di Maastricht del 1992 non è stata accompagnata dallo stesso dibattito, politico e non, che ha tenuto banco in altri paesi (Danimarca e Gran Bretagna su tutti)… avremmo dovuto procedere con una cautela maggiore, chiedendo anche noi ulteriori garanzie? Quali, per esempio?
Si poteva discutere all’infinito di quale fosse un assetto conveniente per l’Italia e fin dall’introduzione dello SME (primo “sistema monetario europeo”, nel 1979). Luigi Spaventa lo fece egregiamente ma invano: nella discussione parlamentare sul tema, compì un’analisi accorata ed implacabile, che è tutt’ora attualissima nell’anticipare i problemi che, addirittura amplificati, avrebbero provocato Maastricht… e l’euro; cioè un “trattato ineguale”, geneticamente portato ad affermare -com’è sempre nel diritto internazionale in materie economiche- gli interessi delle potenze dominanti. Interessi, si badi, sovrani e nazionali.
Perché, a partire dallo SME, e più ancora con Maastricht, si sia accettata questa mancanza “parità di condizioni”, cui l’art.11 Cost. subordina la legittimità dell’adesione italiana a organizzazioni internazionali (e solo per perseguire la “pace e la giustizia tra i popoli”, non per finalità economico-commerciali), può essere spiegato in vari modi: ma nessuna di queste spiegazioni compariva e tutt’ora compare nel dibattito politico e, specialmente, mediatico.
A vedere gli effetti più manifesti e pervicacemente perseguiti nell’applicazione del trattato, la spiegazione più lineare è quella della tradizionale convenienza delle oligarchie finanziarie e industriali a controllare le spinte inflattive, ripristinando un mercato del lavoro inteso come “merce”. Cancellando 150 anni di lotte politico-sociali culminate nelle Costituzioni pluriclasse e della “eguaglianza sostanziale”, quello che sottosta alla costruzione europea attuale è dunque la concezione del lavoro-merce come soluzione di ogni possibile male.
Secondo alcuni, ben prima della crisi economica e finanziaria del 2008, già l’introduzione di parametri di convergenza identici per tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, così differenti fra loro in termini di debito pubblico, prodotto interno lordo e tasso d’inflazione, avrebbe contribuito a rallentare lo sviluppo di alcuni paesi e ad alterare/rovesciare equilibri…
Su ciò non posso altro che ribadire il fatto che, -pacifico che Maastricht non aveva per noi alcuna convenienza oggettiva e che, anzi, ci ha portato ben al di fuori dei limiti negoziali di diritto internazionale consentiti al Governo dalla Costituzione-, rimane oscuro perchè non vi fu “resistenza democratica” al tutto ed un adeguato vaglio parlamentare sulla incompatibilità costituzionale (che emerge plateale alla sola lettura dei lavori della Costituente!).
Quanto questa situazione ha contribuito ad aggravare le conseguenze che la crisi ha avuto su alcuni paesi, e sull’Europa in generale?
Ancora oggi, mentre ci dibattiamo negli effetti disastrosi di quelle inspiegabili (in apparenza) scelte negoziali, se ne fanno di ulteriori ancora più erronee ed insostenibili, come il fiscal compact e l’introduzione, conseguenziale, del pareggio di bilancio in Costituzione. Come può tutto questo continuare ad accadere?
Ogni italiano, in quanto impoverito e privato del futuro che avrebbe avuto in assenza di queste scelte disastrose, dovrebbe chiedersi “perchè”…
Aumenta ogni giorno di più il numero delle persone che invoca l’uscita del proprio paese dalla moneta comune, per potere ristabilire la propria sovranità monetaria e bancaria… una scelta di questo genere sarebbe veramente possibile?
Ripristinare la legalità costituzionale correttamente intesa, cioè il modo democratico di esercitare la sovranità popolare dei diritti, nella eguaglianza sostanziale, deve essere sempre possibile.
La legalità suprema non può essere “rinunciata” perchè risulta “impossibile” realizzarla (con questo ragionamento la Mafia sarebbe ufficialmente il maggior potere istituzionale in larghe regioni d’Italia).
L’alternativa è ammettere che abbiamo (o “abbiano”) innescato volontariamente, cioè con dei trattati, la colonizzazione e la deindustrializzazione del Paese, come se fossimo stati debellati in una guerra di conquista da parte di potenze straniere…di cui qualcuno, all’interno, si sarebbe reso complice.
D’altra parte, come evidenziano gli storici, nessuna forma di colonizzazione è possibile senza la cooperazione delle elites locali.
Secondo alcuni (l’ex presidente della Confindustria tedesca Hans-Olof Henkel, l’economista George Soros, ecc.), una strada differente da percorrere potrebbe essere quella della separazione dell’euro in due…
Tecnicamente ed in estrema sintesi, questa soluzione è solo un’attenuazione e, probabilmente, un rallentamento dei problemi cui dà luogo un’area valutaria priva di un governo federale che effettui trasferimenti fiscali compensativi, nonchè affidata ad una banca centrale cui, unica al mondo, è vietata ogni forma di acquisto diretto dei titoli sovrani degli Stati che utilizzano quella moneta.
Se questa è la via europea all’Unione politica, poi, è palese la contraddizione tra il voler riaffermare la presunta indispensabilità, come strumento, di una moneta unica (per la pace, l’unione, o altro ancora di “ideale”) e l’ammettere il definitivo frazionamento in due macro-aree delle complessive dinamiche commerciali e industriali europee: salvo, all’interno di ciascuna area, il riprodursi degli stessi squilibri e della stessa inevitabile prevalenza di uno Stato su tutti gli altri (come se Germania e Francia, cioè, potessero arrivare a un “entente cordiale” nello spartirsi le rispettive aree di influenza ecomomica e ritrovare l’equilibrio del co-dominio, oggi vacillante, del nuovo sacro romano impero… liberoscambista).