23 agosto – E’ venuto il tempo di chiamare l’eurozona per ciò che è veramente: una delle più grandi catastrofi della storia economica.
Ce ne sono state parecchie, recentemente. Non si tratta solo della Grande Recessione. È anche il modo in cui ci siamo affannati per recuperare il terreno perduto. Gli Stati Uniti, per dirne una, hanno avuto la ripresa più lenta dal dopoguerra ad oggi. La Gran Bretagna, ugualmente, ha avuto una ripresa molto lenta. Dopo sei anni e mezzo, però, l’Europa si distingue per non aver avuto proprio nessuna ripresa. E sta facendo peggio del peggio degli anni ’30.
Il PIL europeo tuttora non è ritornato ai suoi livelli del 2007, e non sembra che riuscirà a tornarci di qui a breve. Infatti già non era chiaro se la sua ultima recessione fosse finita, quando abbiamo visto che nel secondo trimestre l’eurozona aveva nuovamente smesso di crescere. E nemmeno la Germania è rimasta immune: il suo PIL è caduto dello 0,2 percento rispetto al trimestre precedente.
È stato un disastro indotto dalle scelte politiche. Troppa austerità di bilancio e troppo poco stimolo monetario hanno paralizzato la crescita come non era quasi mai accaduto prima. L’Europa sta facendo peggio del Giappone nel suo “decennio perduto”, peggio del blocco della sterlina durante la Grande Depressione, e meglio di stretta misura del blocco del gold standard — anche se nemmeno questa nota positiva è veramente tale. Perché, di questo passo, ci vorrà solamente un altro anno perché l’eurozona abbia fatto peggio anche del blocco del gold standard.
Così, com’è che l’Europa riesce a far apparire la Grande Depressione come il buon tempo andato della crescita? Facile: ha ignorato tutto ciò che avevamo appreso da essa.
A quel tempo c’erano due tipi di paesi: quelli che avevano già lasciato il gold standard e quelli che stavano per farlo. Ma quel “stavano per farlo” avrebbe impiegato un po’ di tempo. Perché i governi erano sentimentalmente attaccati all’oro, sebbene, come mostrato da Barry Eichengreen, rinunciare avrebbe poi portato alla ripresa. Essi semplicemente equiparavano il gold standard alla civiltà, e pertanto erano disposti a sacrificare le proprie economie per esso. E infatti le sacrificarono, sebbene in extremis sono stati messi dei limiti.
La Gran Bretagna, per esempio, nel 1931 rifiutò di alzare i tassi per difendere il gold standard, perché la disoccupazione era già al 20 percento. Decise invece di svalutare, e il resto del “blocco della sterlina” — Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, Portogallo, e Canada — seguirono l’esempio (un risvolto positivo). L’ironia, naturalmente, è che questa debolezza economica li rese più forti. Abbandonare l’oro gli permise di dare quello stimolo fiscale e monetario che spinse una ripresa piuttosto rapida.
Poi c’erano i duri a morire. Paesi che avevano un sacco di oro, come la Francia, potevano effettivamente restare nel gold standard se volevano — e così fecero. Fecero passare delle misure di austerità una dopo l’altra, in sacrificio all’oro onnipotente, e ne pagarono il prezzo economico. Non ebbero un tracollo come gli USA, ma nemmeno riuscirono a riprendersi (linea gialla). Il circolo vizioso dei prezzi in calo, della disoccupazione in aumento e dei crescenti tagli di bilancio li portarono in una recessione infinita. Fino a che, s’intende, la Francia e i restanti paesi del “blocco del gold standard”, che al suo picco includeva Belgio, Polonia, Italia, Olanda, e Svizzera, riunciarono finalmente alle loro illusioni da re Mida nell’ottobre del 1936. Seguì la ripresa.
Come ho già detto, l’euro è il gold standard con un’autorità morale. E quest’ultima parte è il problema. Gli europei non pensano che l’euro rappresenti in sé la civiltà, ma piuttosto che ne sia il baluardo a difesa. È un monumento di carta alla pace e alla prosperità, che ha reso quest’ultima impossibile. Pertanto gli eurocrati che hanno speso la loro vita a costruirlo non saranno mai disposti a distruggerlo, nonostante il fatto che, per com’è attualmente, l’euro si frapponga tra loro e la ripresa.
Proprio come negli anni ’30, l’Europa è bloccata in un sistema di cambi fissi che non gli permette di stampare, spendere, o svalutare per uscire dalla crisi. Ma, al contrario di allora, si rischia che l’Europa alla fine non si arrenda. È una fedeltà al fallimento che nemmeno il blocco del gold standard avrebbe potuto immaginare. E ciò fa sì che la BCE sia l’unica speranza dell’Europa — il che significa probabilmente una condanna.
Ora, per essere onesti, la BCE guidata da Draghi ha fatto più o meno ciò che poteva, entro i suoi limiti legali e politici. Ma la disoccupazione non si risolve così. E questi limiti non sono destinati a sparire, o almeno non abbastanza, per poter evitare uno o due decenni perduti. Al contrario, la BCE continuerà probabilmente a fare il minimo indispensabile: un po’ di tiepido quantitative easing, che finirà non appena la Germania tornerà a crescere un po’ di più.
Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato eurozona.
Articolo scritto da Matt O’Brien per il Washington Post e tradotto da Voci dall’estero – che ringraziamo.