24 apr – Con 10 miliardi di euro si può creare quasi un milione di posti di lavoro, con stipendi da 1.200 euro netti al mese: perché invece disperdere quella cifra su dieci milioni di persone che un lavoro ce l’hanno già, e a cui 80 euro in più non cambiano certo la vita? L
uciano Gallino non ha dubbi: «Al reale cambiamento, Renzi ha preferito lo spot ad effetto, l’impatto mediatico: 10 miliardi per 10 milioni di persone. Rimane impresso nelle menti, ma non cambia le sorti di nessuno». Tutto perfettamente in linea col rigore – per i lavoratori – raccomandato dai “padroni del mondo”, interessati a mantenere alta la disoccupazione: lo stesso progetto del Jobs Act che frammenta e precarizza ulteriormente il lavoro «nasce vecchio di vent’anni», già proposto nel lontano 1994 proprio dall’Ocse, uno dei massimi super-poteri mondiali, quello da cui oltretutto proviene l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan.
A colloquio con Giacomo Russo Spena per “Micromega”, il sociologo dell’ateneo torinese denuncia il Jobs Act come un residuato bellico che porta Luciano Gallinola firma dell’Ocse, cioè «uno dei tanti organismi internazionali che entrano negli affari dei singoli Stati raccomandando sempre flessibilità, concertazione, taglio dello stato sociale». Esattamente vent’anni fa, spiega Gallino, l’Ocse produsse uno studio sull’indice di Lpl, cioè “legislazione a protezione dei lavoratori”, un indicatore di rigidità del mercato. Tesi: più alto è l’indicatore, più alta è la disoccupazione. «Da allora – dice Gallino – molti giuristi, economisti e sociologi hanno dimostrato come lo studio fosse stato scritto scegliendo prima le conclusioni, ovvero l’idea che bisognava smantellare e ridurre la protezione giuridica del lavoro per creare nuovi posti di lavoro, e solo successivamente analizzati i dati che, ovviamente, suffragavano quest’impostazione. In realtà – conclude il sociologo – non c’è alcuna conferma che il taglio dell’indice Lpl possa portare ad aumento dell’occupazione».
Nel 2006, continua Gallino, la stessa Ocse, dopo una serie di risultati, ha ammesso la contraddittorietà del fondamento: l’indice Lpl per l’Italia nel 1994 era superiore al 3,5. Dopo 12 anni, con le riforme delle leggi Treu 1997 (governo Prodi) e Maroni-Sacconi 2003 (governo Berlusconi), era sceso ad 1,5. Più che dimezzato, eppure «i precari sono diventati 4 milioni». Identica musica col governo Monti: «La riforma Fornero ha seguito la stessa scia». E ora ecco il Jobs Act, a favorire ancora una volta la mobilità in uscita. «Nel 2014 ci ritroviamo con progetti lanciati su scala nazionale nel 1994». Sicché, «l’idea di continuare a perseverare con la medesima tecnica, che ha prodotto l’attuale disastro sociale, è preoccupante». Sintetizzando: con Renzi, «siamo di fronte a un conducente che affronta una strada tortuosa di montagna Renzi e Padoanguardando soprattutto nello specchietto retrovisore: una cosa pericolosa, da non fare». libreidee
Precarizzazione “espansiva”, come l’austerity “felice” spacciata dai guru di Harvard e adottata dalla Troika europea? «La precarietà mina la vita di milioni di persone, com’è evidente dagli ultimi 15-20 anni. Distrugge professionalità, costringendo una persona nell’arco di 10 anni a passare da un mestiere all’altro penalizzando esperienze magari indispensabili. E inoltre riduce la produttività del lavoro, come si palesa nelle statistiche. In Italia, culla della precarietà, le imprese ottengono un minimo di profitto e fanno quadrare il bilancio tagliando sul costo del lavoro e puntando sulla compressione salariale dei dipendenti o sulla loro estrema flessibilizzazione». Tutto questo, «invece di investire su tecnologia qualificata, innovazione, ricerca e nuovi settori produttivi: così la precarietà non rappresenta una pessima strada solo per le condizioni di vita dei lavoratori, ma anche per l’economia perché incentiva una strada sbagliata». A questo punto sarebbe fondamentale una vera opposizione. La Cgil? Non pervenuta: il sindacato della Camusso è ormai «appannato».