Naufragio Lampedusa: rapimenti, stupri, torture. Agghiacciante racconto dei sopravvissuti

somalo

13 genn – Arrivano per la prima volta in un’aula di giustizia i racconti agghiaccianti degli stupri e delle torture subiti da un gruppo di profughi superstiti del naufragio del 3 ottobre 2013 in cui morirono, davanti alle coste di Lampedusa, 366 immigrati. Sette eritrei sono arrivati al Tribunale di Palermo dove e’ iniziato pochi minuti fa l’incidente probatorio nel procedimento contro Mouhamud Muhidin, un 25enne ex guerrigliero somalo, arrestato con l’accusa di tratta di essere umani.

L’uomo e’ accusato di avere fatto parte di un gruppo di criminali che hanno sequetrato nel deserto tra la Libia e il Sudan una cinquantina di profughi che poi avrebbero raggiunto le coste libiche per raggiungere Lampedusa. In aula, nel nuovo Palazzo di giustizia, c’e’ anche l’imputato, cicondato dalle guardie penitenziarie. Nessuno sguardo con i sette suprstiti, tutti giovanissimi, tra cui una ragazza di appena 18 anni, stuprata e torturata durante il sequestro. Il gip Giangaspare Camerini sta ascoltando i profughi grazie a un’interprete tigrina che traduce in italiano.

Il somalo arrestato e’ arrivato a Lampedusa lo scorso 25 ottobre a bordo di un barcone con circa 90 profughi subsahariani. Quando i superstiti del naufragio del 3 ottobre lo hanno visto arrivare al centro di accoglienza non riuscivano a credere ai loro occhi: si sono ritrovati l’uomo che aveva li aveva tenuti segregati nel deserto. Così hanno provato ad aggredirlo ma sono stati fermati dai responsabili del centro di accoglienza.

Sulla base di testimonianze dei superstiti, gli inquirenti hanno ricostruito gli orrori del viaggio, le violenze dei trafficanti e gli abusi subiti dalle donne ancor prima di salire su quella barca della speranza. Secondo l’agghiacciante racconto dei sopravissuti il somalo era un vero e proprio ‘carceriere’ degli eritrei in attesa di partire dalla Libia. Il gruppo di 130 profughi, prima della traversata, è infatti intercettato nel deserto da un gruppo armato a capo del quale vi era proprio Muhidin e tenuto segregato per oltre un mese, sotto la minaccia delle armi, in un casolare in Libia. “Siamo stati maltrattati e torturati per giorni dopo essere stati sequestrati al confine tra il Sudan e la Libia da un gruppo di somali a bordo di pick up sotto le minacce delle mitragliatrici. Arrivati in una specie di campo, alcuni di noi sono stati picchiati con manganelli e sono stati sottoposti a scariche elettriche“.

A rappresentare l’accusa il pm Geri Ferrara della Direzione distrettuale antimafia, che coordina l’inchiesta per tratta di essere umani. Sono state circa venti le ragazze stuprate: diciannove di loro sono morte nel naufragio e solo una è sopravvissuta. E oggi e’ qui in Tribunale per puntare il dito contro il suo stuporatore. La ragazza e’ piccola, minuta, capelli cortissimi, con lo smalto rosso e un giubotto bianco. A proteggerla una poliziotta che la tratta con fare materno. “Le donne – hanno raccontato i testimoni ai magistrati – venivano stuprate dai somali, tra cui l’arrestato che era il carceriere del campo libico, e poi ‘offerte in dono’ ai miliziani libici”.

La testimone opravvissuta ha raccontato agli inquirenti che ”una sera dopo essere stata allontanata dal mio gruppo sono stata costretta con la forza, dal somalo e da due suoi uomini, ad andare fuori. Gli stessi dopo avermi immobilizzata a terra, mi hanno buttato in testa della benzina provocandomi un forte bruciore al cuoio capelluto, al viso e agli occhi. Successivamente, non contenti, i tre, a turno, hanno abusato di me”. ”Dopo circa un quarto d’ora e dopo essere stata picchiata -racconta la ragazza tra le lacrime- sono stata riportata all’interno della stanza e lì ho raccontato ai miei compagni di viaggio ciò che mi era accaduto. Preciso che tutte e 20 le ragazze che sono state sequestrate sono state oggetto di violenza sessuale e che nel compiere l’atto i miei stupratori non hanno fatto uso di protezione, non curanti neanche della mia giovane età e del fatto che fossi vergine”.

La stessa giovane eritrea, parlando ancora con gli investigatori che la ascoltavano increduli, ha raccontato che dopo il sequestro “ci hanno privato dei nostri effetti personali e hanno utilizzato il nostro cellulare per chiamare i nostri familiari e chiedere un riscatto che andavano dai 3.300 ai 3.500 dollari per ognuno di noi”. Solo quando i soldi da loro richiesti venivano accreditati sui conti bancari gli eritrei sono stati messi in libertà e accompagnati fino a Tripoli. Da lì il viaggio terminato nel naufragio del 3 ottobre. Nel corso delle indagini era stato fermato anche un palestinese per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver partecipato ad un altro sbarco, questa volta di cittadini siriani, avvenuto sempre a Lampedusa.

Secondo quanto scrivono i magistrati nel fermo di polizia giudiziaria “è emersa la piena operatività di un organismo plurisoggettivo unico e fortemente strutturato, di carattere transazionale e composto prevalentemente da cittadini somali e libici, operante sulla tradizionale rotta dei migranti dai paesi più poveri del continente africano (Eritrea, Sudan, Ciad) al fine di sequestrarli, ricavare il massimo profitto possibile – sia in termini strettamente economici che di altro tipo – da condotte di sopraffazione idonee ad integrare una vera e propria moderna tratta degli schiavi con un enorme fonte di arricchimento a costi praticamente irrisori – scrivono – In tutti tali casi la narrazione fatta dai migranti trasportati e il modus operandi constatato direttamente delinea in modo convergente e uniforme le varie fasi del viaggio e poi della traversata (fino all’arrivo a Lampedusa)”. adnkronos