Malagiustizia: Caso Tortora, una colpa ancora troppo pesante da ammettere

EnzoTortora

Daniele Biacchessi
Enzo Tortora. Dalla luce del successo al buio del labirinto
Casa editrice Aliberti

Quello che leggerete tra le pagine di questo libro non è solo una biografia: è lo specchio di una nazione che crea miti, poi li distrugge e li riabilita alla bisogna, se necessario, spesso se conviene. È un racconto intrecciato, strutturato su vari piani narrativi: c’è la storia d’Italia dagli anni della ricostruzione del dopoguerra, al boom economico, agli anni Settanta, agli anni Ottanta, fino al 18 maggio 1988, il giorno della morte di Tortora. C’è la storia pubblica (perché la vita privata deve restare tale), di un grande talento della radio e della televisione, uno sperimentatore di nuovi linguaggi di comunicazione. C’è infine la storia giudiziaria di Enzo Tortora, iniziata il 17 giugno 1983 con il suo arresto e terminata il 13 giugno 1987 con la sentenza di assoluzione con formula piena della Corte di cassazione. Quella di Tortora è la storia di un uomo innocente rimasto imbrigliato nelle pieghe di una giustizia ingiusta. È una storia che vale per tutti, ancora oggi. Perché nulla vada mai dimenticato.
Daniele Biacchessi è giornalista e scrittore, caporedattore di Radio24. È stato insignito del Premio Cronista 2004 e 2005 per il programma Giallo e nero, del Premio Raffaele Ciriello 2009 per il libro Passione reporter, e del Premio Unesco 2011 per lo spettacolo Aquae Mundi con Gaetano Liguori. Ha alle spalle decine di pubblicazioni tra libri, prefazioni e interventi. Tra i libri più conosciuti La fabbrica dei profumi (Baldini & Castoldi, 1995), Fausto e Iaio (Baldini & Castoldi, 1996), Il caso Sofri (Editori Riuniti, 1998), L’ultima bicicletta. Il delitto Biagi (Mursia, 2003), Il Paese della vergogna (Chiarelettere, 2007), Orazione civile per la Resistenza (Promomusic, 2012). È anche autore, regista e interprete di teatro narrativo civile, e presidente dell’associazione Arci Ponti di memoria.


INTERVISTA A DANIELE BIACCHESSI, VENERDI’ 22 NOVEMBRE 2013 (a cura di Luca Balduzzi)

Come è possibile che uno fra i casi di malagiustizia più eclatanti della storia del nostro paese si sia basato di fatto su un errore di lettura di un cognome indicato sull’agenda di un camorrista, e su un numero di telefono che non è mai stato controllato?
Secondo gli inquirenti, il numero telefonico del presentatore sarebbe stato rinvenuto nell’agendina del camorrista Giuseppe Puca, detto ’o Giappone, successore di Vincenzo Casillo detto ’o Nirone, il luogotenente di Raffaele Cutolo rimasto ucciso in un attentato a Roma il 29 gennaio 1983 e tenutario dei segreti relativi alla trattativa tra Stato, camorra e Brigate rosse per la liberazione di Ciro Cirillo. Ma non è vero, perché nell’agendina di Giuseppe Puca è invece scritto il nome di Enzo Tortona, non quello di Enzo Tortora, e il numero telefonico (0823/442168) non è evidentemente quello corrispondente alla residenza del presentatore a Milano in via dei Piatti 8, ma all’abitazione di Enzo Tortona a Caserta.

Come si spiega un atteggiamento così spietatamente colpevolista da parte della magistratura, della politica (con la sola, meritevole, eccezione del Parlamento Europeo) e della stampa?
Tutta la stampa, tranne rarissimi casi, proseguiva l’opera di linciaggio contro Enzo Tortora. E il primo ottobre 1983 si raschiava il fondo del barile: il Corriere della Sera pubblica un articolo di Adriano Baglivo nel quale accusa Tortora di aver perfino rubato i fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, raccolti attraverso alcune trasmissioni di Antenna 3 Lombardia. Anni dopo Adriano Baglivo e il direttore del Corriere della Sera Alberto Cavallari saranno condannati rispettivamente a sei e a quattro mesi di reclusione per diffamazione aggravata a mezzo stampa.
Ma non tutti si allineano alla versione ufficiale. Sulle pagine de La Repubblica, il 30 ottobre 1983 Giampaolo Pansa intervista il sostituto procuratore di Napoli Lucio Di Pietro a cui rivolge i suoi dubbi sulla credibilità dei camorristi pentiti. Stessa cosa avevano fatto Giorgio Bocca e Enzo Biagi. Pochi altri.

Come spesso accade, la successiva assoluzione di Enzo Tortora passò in secondo piano rispetto alle prime pagine su cui furono sbattuti il suo arresto e il suo processo…
Già nel 1983 avevo espresso dubbi sulle accuse contro Tortora formulate dai pm napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia e dal giudice istruttore Giorgio Fontana, sottoscritte dal procuratore capo della Repubblica Francesco Cedrangolo. Gli indizi si basavano su dichiarazioni di dissociati o pentiti della camorra, poi risultate non veritiere (Giovanni Pandico detto ’o pazzo, Giovanni Melluso detto Gianni il bello o Cha cha cha, Pasquale Barra detto ’o animale, Michelangelo D’Agostino detto il killer dei cento giorni, Andrea Villa detto Alain Delon, Salvatore Sanfilippo, Luigi Riccio, Mario Incarnato, Michelangelo D’Agostino, Franco Di Monaco, Antonio Verderame, Guido Catapano, Pasquale D’Amico, Roberto Sganzerla e altri criminali minori), e di testimoni poi giudicati non credibili (il pittore Giuseppe Margutti e sua moglie Rosalba Castellini). Le chiamate in correità dei camorristi mi parevano a volte contraddittorie, a volte stranamente univoche. Mi pareva che i pentiti avessero concordato tra loro le versioni, come ammesso nel 2010 da Gianni Melluso in un’intervista al settimanale L’Espresso.
Eppure si è creduto a Pasquale Barra, ’o animale, un feroce assassino che il 17 agosto 1981 nel carcere sardo di Badu ’e Carros, con la complicità di Vincenzo Andraous, detto il boia, aveva ucciso con quaranta coltellate Francis Turatello, gli aveva squartato il petto, strappato gli intestini e addentato alcuni suoi organi vitali tra cui il cuore. Nonostante tutto si sono prese per buone le fandonie inventate da Giovanni Pandico, ’o pazzo, uno psicolabile e paranoico frequentatore di manicomi giudiziari: lui che ha sparato al padre, avvelenato la madre, dato fuoco alla fidanzata, pianificato una strage con due morti e un ferito grave nel Municipio di Liveri di Nola, suo paese nativo.
Soprattutto i giornalisti seguirono quel processo senza alcuno spirito critico, ostentando pregiudizi per distruggere un uomo perbene. Scrivevano che Tortora riciclava denaro sporco, passava il confine a Lugano con borse piene di lire provenienti dal sequestro De Martino, rubava i soldi dei terremotati, scambiava pacchetti di cocaina con pregiudicati, frequentava il criminale Francis Turatello, trafficava con quattrini di una televisione napoletana, rendeva omaggio a Raffaele Cutolo e a sua sorella nella reggia del boss a Ottaviano, sorrideva ai camorristi, si battezzava nel sangue secondo antichi cerimoniali. Vennero raccontate un tal numero di idiozie a cui neppure il cronista alle prime armi avrebbe potuto credere.
«Il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso effettuato nel nostro Paese», come scrisse Giorgio Bocca su La Repubblica. Eppure il vergognoso accanimento di buona parte della stampa italiana condizionò per anni l’orientamento dell’opinione pubblica, divisa tra innocentisti e colpevolisti. Solo Paolo Gambescia e Giuseppe Marrazzo chiesero scusa in modo formale alla famiglia di Enzo Tortora, e lo fecero all’inizio dell’iter giudiziario, cosa che dà motivo di credere che le loro scuse fossero certamente in buona fede.

Come giudica l’esclusione del documentario dedicato ad Enzo Tortora dal cartellone del Festival internazionale del Film di Roma?
Tutte le volte che scatta la censura è una sconfitta della democrazia italiana. Un documentario su Enzo Tortora può contribuire all’affermazione di una coscienza critica su un avvenimento che ha coinvolto, diviso, tormentato l’opinione pubblica e la società civile. E’ un bene comune, diciamo. Se al pubblico non lo si fa vedere si commette un grave errore e un danno alla cultura del Paese e al buon senso dei cittadini.