Fulvio Comin
Vajont – Il giorno dopo
Casa editrice Biblioteca dell’Immagine
Nel cinquantesimo anniversario della catastrofe della diga del Vajont, il giornalista Fulvio Comin racconta la ricostruzione del comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone al confine con la provincia di Belluno.
INTERVISTA A FULVIO COMIN, VENERDI’ 15 NOVEMBRE 2013 (a cura di Luca Balduzzi)
Quello della diga del Vajont è un progetto che aveva fatto discutere molto già prima della catastrofe…
Per rispondere a questa domanda bisogna porsene un’altra e cioè: cos’ era allora la Sade? Fondata nel 1905 da Giuseppe Volpi di Misurata (quello che creerà anche Marghera con la sua “chimica” dentro la laguna di Venezia) era davvero uno Stato dentro lo Stato con agganci ovunque e che quando fu assorbita dall’Enel, alla fine del 1962, contava ottomila dipendenti. Basti pensare che la concessione per lo sfruttamento delle acque del Vajont riuscì ad ottenerla pochi giorni dopo l’8 settembre 1943, quando l’Italia stava andando in sfacelo dopo la caduta di Mussolini e tutti pensavano soltanto a scappare: non si riesce a tanto se non si hanno conoscenze molto importanti.
Quando la Sade mise gli occhi sulla vallata del Vajont comprese che la costruzione di uno sbarramento nella forra che il torrente si era scavato per confluire nel Piave, sarebbe stato il punto centrale dell’intero sistema conosciuto come Piave-Boite-Maè-Vajont per dare forza alla grande centrale di Soverzene che avrebbe prodotto molta energia per un Paese che, nel 1957, era in pieno sviluppo ricostruttivo dopo la guerra ed, appunto, di energia aveva grande bisogno. Meglio se questa proveniva da impianti idroelettrici che evitavano di dover acquistare all’estero altri combustibili fossili per far andare le centrali.
Naturalmente la costruzione di una diga avrebbe creato nella valle del Vajont un lago artificiale che avrebbe sommerso terreni di proprietà di privati. Quindi bisognava acquistarli prima di dare l’avvio ai lavori. La vallata era tutta friulana, allora in provincia di Udine (oggi di Pordenone) e chi doveva vendere quei terreni abitava nel Comune di Erto-Casso. La Sade aveva di fronte gente che sopravviveva con attività silvo-pastorali e con l’emigrazione. Chiaro che offrì di acquistare i terreni a prezzi irrisori. I tenaci montanari di Erto opposero resistenza, costituirono comitati di protesta con tutto ciò che ne consegue. Ma, stranamente, proprio la loro sindachessa ruppe questo fronte vendendo, si potrebbe dire di nascosto alla Sade i propri terreni e gli altri, poco per volta, dovettero rassegnarsi a vendere pure loro. Chissà come fu convinta a farlo?
Tutti sapevano che il bacino si sarebbe formato bagnando i piedi del monte Toc (che in friulano significa “pazzo”) che già aveva originato movimenti franosi. Tanto bene lo sapeva la Sade che provvide a costruire un canale sotterraneo (by pass) tra la porzione maggiore del lago e la diga, così che se una frana fosse davvero caduta l’acqua sarebbe passata di sotto garantendo la funzionalità di tutto l’impianto.
Ma ad aprire gli occhi ala Sade poteva bastare quanto era accaduto in un altro suo impianto in val Zoldana. Si trattava dello sbarramento di Pontesei costruito tra il 1955 ed il 1957, dove un movimento franoso, nel 1959, aveva creato, in piccolo, ciò che sarebbe poi accaduto al Vajont provocando la morte di un sorvegliante, Arcangelo Tiziani, il cui corpo non fu mai ritrovato.
Naturale, tornando alla domanda che mi è stata fatta, che se ne discutesse ad Erto e anche nella sottostante vallata del Piave dove Longarone si trovava proprio di fronte alla diga. Ma fu tutto inutile perché la Sade era troppo potente e poteva mettere a tacere chiunque.
Nel cinquantesimo anniversario della tragedia, il Presidente della Repubblica ha ricordato come «quell’evento non fu una tragica, inevitabile fatalità, ma drammatica conseguenza di precise colpe umane, che vanno denunciate e di cui non possono sottacersi le responsabilità»…
Sembrano davvero “lacrime statali di coccodrillo” queste parole. Si riconosce oggi, a cinquant’anni di distanza che ciò che accadde non fu “ tragica fatalità” ma “drammatica conseguenza di precise colpe umane”. Eppure la Commissione parlamentare d’inchiesta in una voluminosa relazione finale non lo riconobbe e anzi scaricò ogni responsabilità su una natura “matrigna” che aveva “tradito” tanti uomini esperti della cui preparazione non si poteva dubitare.
Se pensiamo che il geologo Edoardo Semenza, figlio di Carlo il progettista della diga, aveva calcolato al “grammo”, si potrebbe dire, l’entità della frana che sarebbe caduta dentro il lago e aveva presentato un’allarmata relazione, il disastro sarebbe stato evitato. Ma il suo studio fu ignorato dai dirigenti della Sade. Se ricordiamo che il geologo austriaco Leopold Mueller nel 1959 incaricato di uno studio sul bacino del Vajont lo concluse sostenendo la necessità di abbandonarlo, allora si può capire come i dirigenti della Sade fossero perfettamente a conoscenza di ciò che sarebbe potuto accadere. Ma preferirono “giocare” con la vita di duemila persone piuttosto che rinunciare al profitto che dal bacino sarebbe derivato.
Del resto a loro interessava che tutto fosse a posto e che la frana non precipitasse prima di quel 27 novembre 1962 quando l’Enel ( e cioè lo Stato) acquistò, si potrebbe dire ad occhi chiusi, tutta la Sade e, con essa, anche il bacino del Vajont.
Di altro tenore sono invece le due relazioni di minoranza accluse al fascicolo che contiene le risultanze della Commissione parlamentare d’inchiesta. Queste ultime affermano, senza mezzi termini, che la responsabilità fu della Sade e dei suoi dirigenti. Ma nessuno volle tenerne conto.
Solo nel 1997, a 34 anni di distanza dal disastro, qualcuno (Montedison) viene condannata a risarcire i comuni colpiti dalla tragedia. Passano però altri tre anni prima che si trovi un accordo per la ripartizione degli oneri del risarcimento dei danni tra ENEL, Montedison e Stato Italiano… come giudica i tempi della giustizia italiana di fronte a questa vicenda?
La Sade pur potentissima non riuscì a reggere alle conseguenze del disastro del Vajont e finì con l’essere assorbita dalla Montedison con la quale si fuse. Chiaro che toccò a quest’ultima dover far fronte al risarcimento dei danni.
Mi si chiede come giudichi i tempi della giustizia italiana di fronte a questa vicenda. Posso rispondere che essa non è stata diversa da altre “oscure” vicende di cui si è occupata anche successivamente. E non è soltanto una questione di giudici, ma anche di codice e pure di avvocati che nel tessere orditi sono più abili della già abusata Penelope. Vorrei ricordare che Giovanni Leone allora presidente del Consiglio dei ministri, che fece subito visita a Longarone e poi ad Erto, disse ai superstiti che lo Stato avrebbe fatto tutto quanto fosse stato necessario e che “non badassero a spese” nel fare le loro richieste. Lo stesso Leone sarà poi nel collegio di difesa della Sade nel processo dell’Aquila a sostenere, con gli altri, l’imprevedibilità di quanto era accaduto sul Vajont.
Quanto è stato difficile per le comunità colpite da questa tragedia ricostruirsi completamente da zero?
Nel libro mi sono occupato soltanto di ciò che è accaduto nel versante friulano del disastro e cioè della comunità ertana e della sua successiva forzata dispersione. Un paese che aveva più di 1800 abitanti fu costretto a lasciare le proprie case cui lo Stato fece togliere l’erogazione dell’energia elettrica e chiudere l’acquedotto per essere certo che le ordinanze di sgombero sarebbero state rispettate. Non soltanto il capoluogo Erto ed il centro abitato di Casso, ma anche le borgate e poi tutta la valle del Vajont furono completamente svuotate da ogni presenza umana. Perché? Che si voleva fare della vallata?
Questo ho cercato di ricostruire nel libro raccontando un esodo che non ha paragoni e del quale quasi nessuno si è occupato perché allora quasi nessuno conosceva Erto.
Bisogna ricordare che la frana divise il lago in due parti: una piccolissima rimase tra la frana e la diga; l’altra, assai più vasta, andò ad occupare il fondo della vallata sino alla frazione di San Martino ma il by pass costruito proprio in previsione della frana si era ostruito e non funzionava più. Per questo il livello del lago si alzava continuamente. La sommità della enorme frana raggiungeva una quota assai superiore a quella della diga e viene da pensare che, con qualche accorgimento tecnico, poteva diventare lei stessa una diga creando un lago molto più grande che avrebbe sommerso anche l’abitato di Erto. Per questo furono mandati via tutti gli abitanti e l’ordinanza fu ripetuta anche quando era contraria alla logica. Soltanto quando da Roma giunse la notizia che l’Enel non avrebbe più riutilizzato il bacino, le ordinanze quasi cessarono. Ma nel frattempo la comunità si era azzannata e frantumata e per convincerla comunque ad andarsene fu messa in giro la voce che per vuotare il lago sarebbero stati necessari due anni e per chi viveva di sussidi, in abitazioni malsane o in prefabbricati si trattava di un tempo troppo lungo e allora molti, ma non la maggioranza, decisero di acchiappare ciò che veniva offerto, accettando di andarsene.
La ricostruzione delle sedute dei consigli comunali di Erto è, sotto questo aspetto, inquietante, perché tra le righe si legge che ci fu chi spinse per la frantumazione ma non sappiamo, dai documenti, se lo fece perché convinto di far bene oppure perché “sollecitato”. La comunità ertana si disperse tra Vajont (il Comune più piccolo d’Italia con poco più di un chilometro quadrato di superficie), San Quirino ( vicino a Pordenone), Ponte nelle Alpi e nella nuova Erto costruita poche decine di metri al di sopra del vecchio centro storico che rimase disabitato. Altri sparirono in località diverse. La comunità ertana quindi non si ricostituì più.
Come, purtroppo, capita spesso in casi come questo, anche persone del tutto estranee all’accaduto hanno potuto beneficiare di finanziamenti pubblici particolarmente rilevanti che sarebbero stati destinati alle vittime e alle aziende dei comuni colpiti. Oltre al danno, la beffa!
La legge del 4 novembre 1963 n. 1457 che si intitolava “Provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont” non recò alcun beneficio agli ertani. Tra l’altro, nella prima stesura della legge, Erto non era neppure citata (incredibile, ma vero!).
La normativa prevedeva un contributo a carico dello Stato del 50% della spesa per le imprese industriali e commerciali, oppure del 70% per le imprese artigiane e le piccole imprese commerciali che volessero rinascere. Queste nuove iniziative potevano essere realizzate non soltanto in val Vajont oppure nell’alta Valcellina, che era confinante, ma in tutta la provincia di Udine e pure in quelle confinanti così che un ertano, se voleva, poteva usufruire del contributo costruendo, per esempio, un albergo a Lignano o un’azienda vinicola sul Collio Goriziano.
Ma gli ertani che erano agricoltori, allevatori di bestiame (soprattutto bovini), piccoli artigiani o piccoli commercianti non riuscirono a far nulla. Veri “avvoltoi” arrivarono nella valle e cominciarono a fare offerte in denaro a chi poteva vantare un titolo o, se non l’aveva, a procurare testimoni che affermavano che tale titolo esisteva ma che le carte erano andate disperse nel disastro. E c’erano pure notai pronti a redigere l’atto. Tutto alla luce del sole, quindi. Dietro un compenso di alcune centinaia di migliaia di lire, si intascarono, dopo, miliardi dallo Stato e sorsero attività remunerative, nessuna in Comune di Erto. Miliardi, ma nelle tasche sbagliate.
Non parliamo poi dei proventi delle collette in denaro o dei sussidi che si perdevano se si trovava un lavoro e poi non li si aveva più se per caso l’interessato si ritrovava di nuovo disoccupato.
E’ una davvero pessima pagina della nostra storia cui non si dettero risposte sufficientemente energiche da parte della Magistratura, che pure se ne interessò.
Anche lei, il 9 ottobre del 1963, era sulla diga…
Avevo allora 18 anni e frequentavo l’ultimo anno del Liceo scientifico a Pordenone. Ero capitato ad Erto per una di quelle combinazioni della vita che poi sono destinate a segnarti per sempre. In quel pomeriggio del 9 ottobre, una giornata calda ed assolata, stavo appunto là vicino alla diga dove poi tutto sarebbe accaduto. Se la frana avesse deciso di precipitare nel lago in quel momento, non sarei neppure più stato ritrovato. A mio modo sono anch’io un superstite di quel disastro e ricordo ancora con emozione quel giovane dietro il banco del piccolo bar vicino alla diga che mi disse: «Se c’è pericolo mi avviseranno». Né lui né tutti i suoi familiari furono mai ritrovati e giacciono ora da qualche parte là, sotto la frana.