La vicenda alla base di Border è reale, e lo scenario in cui si svolge è più che mai attuale.
In una Siria devastata dal conflitto civile, due sorelle vengono a sapere che il marito di una di loro ha deciso di disertare le forze armate del regime di Bashar al-Assad per unirsi ai ribelli dell’Esercito Siriano Libero.
Per scampare ad una sicura rappresaglia da parte della Shabiha (la milizia che appoggia il Governo), Aya e Fatima sono costrette ad abbandonare immediatamente la loro casa e la loro città -Baniyas-, e a cercare di attraversare clandestinamente il confine con la Turchia, affidando la loro sopravvivenza e la loro salvezza a dei perfetti sconosciuti.
Non si riesce a comprendere perché, a fronte di una storia che sicuramente meritava di essere fatta conoscere, Alessio Cremonini non abbia preferito affidarsi alla forma più efficace del documentario, ma abbia deciso di mettere in piedi un film neanche lontanamente all’altezza sia delle aspettative che degli sforzi produttivi che ci sono dietro (o, almeno, questo è quello che sembra).
Per uno sceneggiatore che, sempre in argomento Medio Oriente, ha contribuito alla realizzazione e al successo di Private di Saverio Costanzo, colpisce che una collaborazione a quattro mani con la giornalista italo-siriana Susan Dabbous (rapita nell’aprile scorso assieme a tre componenti di una troupe della Rai), sia riuscita a portare ad risultato di questo genere.
Personaggi per niente approfonditi, e dal primo all’ultimo perfettamente stereotipati. E non c’è nessuno che si preoccupi di smentire il giudizio secondo cui le due sorelle non si tolgono mai il niqab perché sono fondamentaliste islamiche. Dico «smentire», perché la sceneggiatura vorrebbe che questa fosse, invece, una scelta che rispecchia il loro profondo senso di religiosità.
Una narrazione, poi, frammentata e sfilacciata per quello che riguarda il raccordo fra le sue varie parti. I ritmi di un lungometraggio, in cui Cremonini fa il suo esordio, non sono gli stessi di quelli dei corti o del piccolo schermo.
Per non parlare, infine, della recitazione. Magari, oltre a lasciarsi incantare e trasportare dalla musicalità della lingua araba, come ha dichiarato in una intervista per Fabrique du Cinema, Cremonini avrebbe dovuto fare presente ai suoi attori alla loro prima esperienza che anche nella musica esistono differenti tonalità.
L’intenzione del film era quella di sensibilizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su una tragedia umanitaria verso cui l’Occidente continua a mostrarsi eccessivamente indifferente, con i mezzi di comunicazione incapaci di raccontarla in maniera completamente obiettiva.
Se, però, la volontà di non creare alcuna atmosfera attorno a ciò che accade ai protagonisti è il solo modo per raccontare in maniera efficace un fatto di cronaca, purtroppo l’unico effetto che si riesce ad ottenere è quello di far percepire l’intera vicenda ancora più distante di quanto lo sia già.
Luca Balduzzi