C’è una guerra che viene combattuta ogni giorno in questo Paese: si chiama giustizia ingiusta

Toghe-rosse

GIUSTIZIA COME “ARMA” CONTRO I NEMICI. SPADA SENZA IMPUGNATURA
(il moralista)

Ricevo e volentieri pubblico

Caro direttore e gentili lettori,

sono seduto ad un tavolino di una splendida società agricola a Torreglia, sui Colli Euganei: “Quota 101”. E’ inizio di settembre, mese di sinistri presagi e proiezioni funeste per la nostra comunità nazionale. E’ un pranzo speciale. Davanti a me c’è Pippo Baudo.

Vi faccio vedere una foto: il leggendario personaggio, prototipo del “bravo presentatore” della tv mi cinge affettuoso e simpatico nel suo abbraccio, persino paterno. Mi rendo conto, sembriamo Ale e Franz nella scenetta dei pensionati un po’ bisbetici che rievocano i bei tempi.

Mi ha invitato a quel convivio ristretto un collega che ho ritrovato dopo la bellezza di 23 anni: si chiama Giuliano Ramazzina, ero con lui al “Resto del Carlino” di Rovigo. Giuliano ha pubblicato un pamphlet per la “Marcianum Press”, si intitola “Muoia Sansone, ma non i dorotei – L’Italia degli irrottamabili”. Ve ne consiglio la lettura.

Osservo “il maestro” con curiosità, è invecchiato ma lucido. Pippo Baudo ha la fibra forte uscita dalla rinomata fabbrica Balena Bianca. Azienda che fu chiusa per ordine delle signore Toghe Rosse. Una confraternita implacabile, che si sostituì alle inconcludenti, incapaci e divise forze politiche della sinistra.

Parliamo dei dorotei, che ci sono sempre o che si sono invece estinti per sempre come i dinosauri.

Poi, appunto, ci appartiamo sulla panchina in cui l’I-Phone ci immortala, incredulo. Lì lo intervisto per Canale Italia.

Baudo non se la tira. Ha la semplicità delle persone intelligenti, la disponibilità dei signori veri, l’educazione che è frutto di amore per le proprie origini, gratitudine verso i genitori, rispetto verso il prossimo e intuito a capire al volo i sacrifici, la fatica, il lavoro degli altri. E magari il talento.

Mentre inanello domande a sue risposte, all’improvviso e senza un motivo preciso, la mia mente proietta accanto a lui un’altra immagine come fantasmatica. Intravvedo un uomo dal volto altrettanto noto. Un suo collega presentatore. Loro due si conoscevano bene: “la sera prima della tragica fine” avevano condiviso uno studio televisivo, mi pare di ricordare per una trasmissione elettorale.

tortoraSi chiamava Enzo Tortora, quell’uomo: e se io faccio questo mestiere, confesso, lo debbo un po’ a lui. Io ho tentato sempre di ispirarmi al suo esempio, al suo modello, al suo stile, alla sua classe, finezza, garbo, a una cultura da fine dicitore ma sempre senza superbia, al suo sacro rispetto della lingua italiana, della sintassi e grammatica, al suo amore sviscerato per la ricchezza del nostro vocabolario.

Glielo ricordo. Allora Pippo tace e mi guarda un istante, un velo di commozione, troppo spontanea per essere celata o simulata, gli si poggia sugli occhi. Quegli stessi occhi che tante volte hanno visto davanti a sé platee sterminate del rutilante mondo della televisione, un pianeta chiassoso fatto di audience, teatri delle Vittorie e Ariston, lustrini e paillettes, canzonette e pagliacci, nani e ballerine, esibizionisti e perditempo, zoccole e gigolò, ma anche persone sincere e artisti appassionati.

“Enzo…eh già…è una ferita che non si è mai rimarginata…” sussurra, mentre io ripongo i ferri del mestiere, telecamerina digitale e microfono. Scuote impercettibilmente il capo, come a voler allontanare da sé uno spettro troppo ingombrante. Angosciante come un senso di colpa rimosso.

A quel punto io vorrei porre sotto la potente intercessione di Pippo il mio destino professionale. Ma so che non si può. E so anche che non servirebbe. A nulla.

C’è una guerra che viene combattuta ogni giorno, in questo Paese: si chiama giustizia ingiusta e si svolge nel teatro del Tribunale permanente. E’ un massacro di diritto, una carneficina di legalità ed equità, una ecatombe di umanità e pietà, uno sterminio di speranza ed una strage di futuro. Un macello di povericristi, i cui quarti smembrati fanno bella mostra di sé sugli uncini invisibili delle ignobili piazze d’armi che sono i nostri “Palazzi di Giustizia”.

Chi osa opporsi, chi ha l’improntitudine di dire di “no, scusate ma che state facendo?”, chi tenta di proiettare un raggio di sole sull’inferno terreno della nostra in-giustizia, è destinato a fare una brutta fine. Garantito al limone come dicevamo da ragazzi.

Intendiamoci. Si può anche fare finta che non sia questa la situazione, che “sì certo ma vabbé il problema è ben altro…”. Si può prendere a calci come un pallone questa verità dolorosa. Ci possiamo stordire di circenses, puttanate assortite, stronzate gabellate per argomenti indispensabili, droghe vere o metaforiche, sesso e pornografia, slot machine o gratta e vinci. Ma infine la nuda e cruda realtà non muterà per incanto: semmai, ne saremo complici e fiancheggiatori e conniventi e favoreggiatori.

La ferocia più indicibile che popola le nostre vite graffia il mondo stesso che vorrebbe che noi ci girassimo dall’altra parte, non disturbando i manovratori. Occupandoci dunque di altre cose, più innocue e tranquille. E facessimo così per istinto di sopravvivenza, per opportunismo, per convenienza, per interesse di parte, forse infine per viltà o terrore o menefreghismo o fancazzismo o indifferenza o che altro non importa cosa.

Ciascuno di noi, se se lo chiede, troverà infinite e plausibili ragioni per farci i cazzi nostri e tirare innanzi come se niente fosse: la giustizia ingiusta ti macella? Fatti tuoi, io non c’entro niente, se ti tocca ci sarà stato pure un motivo o no? Dài, un po’ te lo sarai meritato! Urli che no? E chissenefrega, fammi passare e non spaccarmi le palle!

Sono sempre stato lacerato, su questo: mi sono domandato una infinità di volte se fosse giusto gettare via la mia carriera, dunque la mia vita intera, alle ortiche di ideali che mi avrebbero reso solo ed infelice. Per restare coerente con l’impegno di non abituarmi, non assuefarmi, non anestetizzarmi all’orrore di una giustizia che distrugge le persone. E una infinità di volte mi sono risposto, o è come se qualcuno dentro di me lo abbia fatto: devi opporti a questa vergogna civile. Non puoi rimanere inerte: dicci, che senso ha avere le mani pulite, se quelle mani le tieni in tasca? Ma se avessi fatto il “bravo bambino”, sarei stato premiato?

Ho sempre pensato che fosse importante anche dare un segnale agli altri, forse addirittura l’esempio, esplorando le strade chiuse alla verità. Ma in quei tempi io non immaginavo ancora quanto questo mi sarebbe costato. Intendo dire, offrire un segno soprattutto alle persone perbene: come sempre ha ragione M.L. King, “io non ho paura dei violenti, temo il silenzio delle persone oneste”.

Ho cominciato a capirlo e a muovermi, soffermandomi proprio sulla immagine-icona che i Radicali hanno riproposto come manifesto per la raccolta delle firme sui sei quesiti referendari dedicati alla riforma della giustizia.

Ve la faccio rivedere: Enzo Tortora in manette, il volto più stupito che dolente o sgomento, stretto tra due gendarmi, nel giorno dell’immondo arresto con l’accusa di essere “un mercante di morte”. Lui, non quelli che già allora pensavano di usare la spada della giustizia per la propria vanesia vanagloria, per la carriera e per farsi belli sui giornali e alla tv e agli occhi delle autorità e dei superiori, o per avidità, o per consumare vendette sotto l’egida dello Stato, o per odio personalistico, finanche per antipatia e perché qualcuno gli sta sulle palle.

Ma come ci insegna Piero Calamandrei: “La giustizia è una spada senza impugnatura, ferisce anche chi pensa di brandeggiarla”.

Hanno cercato di colpirmi, ferirmi, intimidirmi, impaurirmi e poi ipnotizzarmi, rincitrullirmi, rabbonirmi, blandirmi, convincermi, dissuadermi, allontanarmi dal “cuore” delle cose, in molti modi, in questi anni desolati e disperati.

Un primo magistrato, da me totalmente sconosciuto come tutti i suoi colleghi – sino a quel punto della mia esistenza -, un magistrato che nulla sapeva di me dei miei pensieri valori fedi convinzioni passioni impegni speranze, mi cambiò e travolse la mia “prima” vita; un altro magistrato cercò di finire l’opera demolitoria, non portata a termine, giungendo molti lustri dopo a prendere a cornate la “seconda” e ciò che ne restava.

Il primo, prestandosi – consapevole? Inconsapevole?… me lo sono chiesto giorno e notte concludendo che la risposta non mi serviva proprio a niente – ad essere “arma letale”, per punire esemplarmente chi aveva osato creare una televisione privata e locale talmente libera e sfrontata, tanto folle da osare cercare e stanare le verità nascoste e negate e dirle a tutti quelli che volessero ascoltarle, quelle verità.

Lo sciagurato da punire ero io, come avrete capito. L’emittente a cui avevo dato vita, letteralmente, con l’aiuto di alcuni amici (che se la sono passata non meglio di me, in seguito), sin dall’inizio aveva proposto alla pubblica opinione goriziana una vicenda pressoché sconosciuta ai più: le foibe e gli infoibati. Ore e ore di diretta. Testimonianze inedite, racconti, reportage, servizi, telefonate del pubblico.

“Fascista”: quando ritrovai la mia stramba auto giapponese nera di allora imbrattata orribilmente con la vernice gialla, come facevano i nazisti per marchiare le case degli ebrei, cominciai un pochino a preoccuparmi.

Quando trovai una pallottola sul parabrezza, ancora di più: vorrei vedere voi.

Ma era niente, rispetto a quello che sarebbe accaduto, nel prosieguo di una bruttissima storia di soprusi e abuso di potere, di prevaricazione, prepotenza, arroganza, intimidazione e persecuzione legalizzate da istituzioni ributtanti, senza legittimità perché senza rappresentatività.

“Qualcosa si trova sempre…” bofonchiò agli avvocati alleati e lecchini quel pm, un pasdaran barbudos e marcatamente di sinistra. Me lo riferirono invitandomi alla cautela. E qualcosa trovò. Ma questo è un dettaglio, fino ad un certo punto. Non nascondiamoci dietro ad un dito. Quando finisci nel mirino della magistratura politicizzata, ideologizzata, fanatizzata, non c’è niente da fare: sei spacciato. Io non avevo dato ascolto agli “avvisi ai naviganti”. Ci sono avvertimenti, ci sono segnali inequivocabili: ero stato imprudente. Avventato. Avevo messo il piede in fallo ed ero stato marchiato a fuoco. Non sarei mai più stato lo stesso: la faccia deturpata come se mi avessero buttato un secchio di acido. La mia esistenza friggeva, ustionata, e la mia pelle sociale cadeva a brandelli: era ciò che essi volevano. L’esatto, chirurgico risultato dell’assalto. Ti rovinano la salute, ma non è finita qui. La carriera poi ne era stravolta, finita fuori strada, schiantata e spiaccicata ad un muro di cemento, e nessuno me l’avrebbe mai più restituita. Non vado a caccia di alibi, chi mi conosce lo sa. Ma vorrei vedere io l’alpinista raggiungere e conquistare le alte vette venendo trattenuto alla gamba da una catena legata all’albero a valle.

Non ero stato un “eroe”: semplicemente, amavo – e amo – moltissimo il mio lavoro di cronista. Che per me voleva dire essere degno del più alto onore di un giornalista, quello non fermarmi mai davanti all’evidenza della menzogna che ci dovrebbe bastare e di cercare invece la verità dove era stata rinchiusa. E liberarla, come un falco che non può restare in gabbia ma che deve – per le ali che ha – volare libero sul suo nido in cima alla montagna incantata.

Ma Tortora, anche lui lo era stato, temerario? Perché chi non è “dei loro” finisce nella tagliola cattiva e sadica, che si serve del potere di vita e di morte della magistratura? E’ una legge ineluttabile? C’è rimedio allo sconcio di un combinato disposto composto di ingiustizia e sopruso ammantato di toghe nere? Dobbiamo rassegnarci tutti, buoni e cattivi, belli e brutti?

Ma se molliamo, non è come cancellare la scritta “La legge è uguale per tutti” dalle aule di giustizia? Non è come coprire – in guisa di cadavere – il Crocefisso sulla parete, quando lo lasciano al suo posto e non costringono pure Lui a chiudere gli occhi, per non dovere vedere l’orrore là davanti, lo strazio là sotto?

Voglio dire: se togliamo l’umanità, cosa ne resta della nostra giustizia? Solo un Olocausto.

L’ex direttore del Corriere della Sera, Piero Ostellino, come me non ne può più della magistratura politicizzata.

Nel memorabile editoriale di questa estate, “Magistrati rivoluzionari con stipendio statale”, Ostellino torna a denunciare i tentativi di “rivoluzione per via giudiziaria” condotti dalle toghe rosse a danno della democrazia. E a spese di noi cittadini.

Al susseguente, pesante attacco del presidente di Magistratura democratica, Luigi Marini, Ostellino controreplica : “Volete fare la rivoluzione stipendiati dallo Stato che intendete sovvertire… (Ma) la rivoluzione non si fa a colpi di sentenze…Siete degli aspiranti rivoluzionari con lo stipendio, la mutua, la pensione garantiti. Almeno risparmiateci certe lettere ipocritamente indignate».

Personalmente, ho sempre avuto la convinzione che lo “Stato di polizia” (emergenziale, per definizione) sia un organismo funzionale al vero Potere Occulto che muove i fili dei vari burattini, protagonisti e comprimari, della nostra sedicente “giustizia”. Ebbene: io so, che vi è una super-massoneria che comanda, a Palazzo. Lo so e non mi servono altre prove, per sapere, per capire, per conoscere, oltre alle cose che ho vissuto io stesso. Mi basta e avanza.

Sì. C’è un Moloch dai mille occhi e mille tentacoli. Ti osserva. Ti segue. Sempre. Ovunque. Non hai vie di fuga. Ti afferra e ti stritola nell’abbraccio soffocante, se rompi i coglioni. Fino a che, sazio delle tue carni, ebbro del tuo sangue, infine ti bacia sulla bocca oscenamente per suggerti sin dal midollo la tua dignità, il rispetto di te stesso, l’onore e il decoro, la libertà stessa. A quel punto tu non sei più nulla: spazzatura umana da gettare. Nient’altro: il Moloch è padrone assoluto del tuo corpo e della tua anima.

Tortora fu condannato a morte, dal Mostro. E anch’io. I danni che ho riportato sono irreparabili. Non mi hanno portato via, però, l’intelligenza donatami dai miei genitori, il loro esempio di onestà e rettitudine e la conseguente, indomabile libertà di critica.

Ne sono stato vieppiù più consapevole dopo che un secondo pm, dichiaratamente comunista e sempre di “Magistratura Democratica” (perché, la restante è dittatoriale?…), ha provato a completare l’opera di eliminazione. Stavolta usando contro di me un articolo scritto per queste colonne: ma credo che il resto lo sappiate, perché ampiamente narrato sul “Piave” anche dall’amico Alessandro Biz. Quel che non sapete ancora, è che il pm locale, della stessa corrente sinistrorsa del pm che mi voleva in galera per le mie opinioni, accusandomi del delitto di pensiero e del reato di idee, ha condotto l’inchiesta in modo – come si può dire – piuttosto disinvolto. Ma sicuramente molto impegnato e scrupoloso, sempre a favore del suo collega di corrente politico-sindacale.

Costoro, infatti, per l’assenza – unica categoria professionale sulla faccia della terra – della responsabilità civile per dolo o colpa grave, fanno tecnicamente ciò che vogliono. Nel mio caso, mesi dopo la remissione di querela per avere versato nelle tasche del pm “offeso” tredicimila euro (più altri due al suo avvocato milanese), mi sono visto recapitare da “Equitalia Giustizia” a nome e per conto del Tribunale competente, la cartella esattoriale pari a euro 61,23. Avendo io già saldato una precedente cartella di euro 32,70, mi sono chiesto: e questa che roba è? Ebbene, dopo convulsa ricerca con i miei avvocati, perplessi, ci saremmo arrivati: numeri telefonici di cellulare. E cioè? Bé, o intercettazioni telefoniche, oppure acquisizione di tabulati. Nel fascicolo della “inchiesta”, infatti, si trovano un paio di numeri di cellulari. E a questo punto voi vi chiederete, come me: ma a cosa diavolo servivano le intercettazioni telefoniche, se l’indagine era avviata e condotta su una presunta diffamazione a mezzo stampa e pertanto basata su un articolo di giornale – questo giornale – laddove come dicono i giureconsulti latini la prova è “in re ipsa”, ovvero semplicemente “nella cosa stessa”. L’articolino, per l’appunto. Che altro serve, signori miei? La marca del pc? Il colore delle mutande dell’estensore? O addirittura le sue conversazioni telefoniche?

Vi prometto che lo scopriremo, oh se lo scopriremo…

Però bisognerebbe chiederlo ai pm crociati, sacerdoti di legalità, angeli del focolare giustizialista, vendicatori del male da estirpare dal nostro disgustoso mondo corrotto ed imperfetto.

C’è chi sopravvive per modo di dire alla “disfunzione” giudiziaria, epperò orbo della parola perché denudato della dignità: restano infine solo morti che seppelliscono morti.

A chiunque soccomba ai guerrieri della falsa legalità vada la nostra pietà: con lui moriamo un pizzico anche noi.

Io avrei veramente voluto essere un giusto. I giusti sono coloro che, di fronte a un’ingiustizia o al cospetto della persecuzione di altri esseri umani, sono capaci di andare con coraggio in soccorso dei sofferenti. E con le loro azioni e le loro parole sanno interrompere la catena depravata del male di cui sono testimoni.

Per essere un giusto, però, non basta firmare una petizione contro i mali del mondo. O concionare al bar. Ci vuole un atto morale che coinvolge e stravolge nelle profondità più insondabili la coscienza della persona. La cambia. La mette in gioco e a rischio.

I giusti si dimostrano capaci di un atto d’amore verso il prossimo. E pensate al risultato: l’amore dei giusti verso gli altri uomini supplisce alla mancanza di una giustizia terrena degna di questo nome. Addirittura soccorre la distanza, il silenzio se non l’impotenza di Dio.

Però i giusti non sono santi. Non sono eroi. Non perseguono l’idea di una giustizia assoluta. Solo, tengono accesa la fiammella, che è la speranza di una umanità migliore e di una giustizia che non ci faccia vergognare di essere uomini tra gli uomini.

Nella mia esperienza, ne ho trovati troppo pochi, di giusti. Io stesso non ne sono stato all’altezza, per egoismo e viltà.

Credo che siamo tutti colpevoli. Colpevoli di avere consentito al Mostro di crescere, di tralignare, di svilupparsi e straripare ovunque fino ad essere onnipotente. La nostra è una colpa atroce. La pagheremo cara sapete?

Sempre Calamandrei diceva: “Temo il giudice che vuole fare Giustizia e non semplicemente applicare la legge”.

Ci siamo tutti noi, al centro di questa Storia: sempre noi siamo il nodo cruciale del male nel mondo e della sofferenza degli innocenti.

E’ nostra, insomma, questa riproposizione della “Colonna Infame”, ovvero la dimensione intrinsecamente tragica della giustizia dell’uomo e del processo penale. Una materia incandescente: di cui con le unghie e coi denti dobbiamo impadronirci.

Per esempio con i referendum dei Radicali, i soli che abbiano fatto qualcosa di concreto e “programmatico” e veramente “politico” in questi anni infelici, mentre immersi nella caligine eravamo tutti o quasi sordi, ciechi, muti davanti al sangue che scorreva nei tribunali, all’urlo, al furore, al pianto, alla tortura sugli innocenti.

Ricordo che era Giovanni Falcone – F-a-l-c-o-n-e, capito di chi parlo? Quello fatto saltare per aria a Capaci, quello che i suoi stessi colleghi postumi usano a piacimento per godere di … eroismo riflesso – che si battè convintamente per la separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti, cioé il tarlo di fondo che rende e renderà l’intera impalcatura penale non credibile, non imparziale, non limpida e né trasparente, non condivisa e né condivisibile dai comuni cittadini italiani.

Persino la nostra economia se ne va a puttane, a causa della giustizia negata, questa volta civilistica: i gruppi stranieri non investono in Italia perché è assente la certezza del diritto.

Un reato che a Milano non viene perseguito, a Venezia lo è, un delitto perseguito a Torino è negletto a Napoli. Non abbiamo un sistema giudiziario, abbiamo una lotteria. Un sistema penale à la carte. Un sistema civile farraginoso e omertoso.

Comprendo il disagio imbarazzato: per i pm tornare indietro è scomodo. Ammettere di avere sbagliato e subire quindi uno scacco, quando si medita un trionfo benché così artificiosamente preparato, è praticamente impossibile. Lo so, vi pare che non lo sappia?

Ma è esattamente questo, che dovrà accadere, che dovrà cambiare radicalmente, perché vi sia salvezza e sia posto termine a una “giustizia” malata che ci sta contagiando tutti. Non più servizio essenziale ai cittadini, bensì rivendicata senza ritegno come sopraffazione e pervertita come arma contro “il nemico”.

Il clima, forse, sta lievemente ed impercettibilmente cambiando: o mi sbaglio?

E pensate che ho scritto tutto questo articolo senza mai nominare Berlusconi: incredibile.

Gianluca Versace

Giornalista e scrittore